SULLA GEOGRAFIA DEI VIAGGI DI GILGAMESH

E. Spedicato

Dipartimento di Matematica, Università di Bergamo, Italia

Release 2, luglio 2015

Riassunto

Si considerano i viaggi di Gilgamesh, descritti nella sopravvissuta epopea di Gilgamesh. Supponendo  l’epopea basata su eventi reali, proponiamo un itinerario di questi viaggi  diverso da quello usualmente considerato. Affermiamo che Gilgamesh puntò al cuore dell’Asia, forse la terra d’origine dei Sumeri, per due vie differenti: una prima volta attraverso il Karakorum, una seconda passando dal lago  Balkash e dalla Zungaria. Meta finale il massiccio montuoso detto nell’epica Mashu/Nimush, ora chiamato Anye Machen, in Tibet, circondato dal Fiume Giallo, mo0nte ancora oggi sacro per la tribù locale degli Ngolok.

Questo lavoro è dedicato:
a Leonard Francis Clark, esploratore delle solitudini del Tibet settentrionale e della giungla amazzonica
agli Ngolok fiera tribù del Tibet settentrionale,  custodi della sacra montagna Anye Machen, sede di Ziusudra/Utanapishtim e meta di Gilgamesh
a Khubaba  e agli Yeti creature pacifiche delle alte montagne, nostri  fratelli genetici troppe volte oggetto di caccia dell’ Homo Sapiens Sapiens, dell’ homo homini lupus.

1. Introduzione

L’epopea di Gilgamesh narra le avventure di Gilgamesh, re della città sumera di Uruk, figlio del semidio Lugalbanda e della dea Rimat Ninsun, quindi egli stesso per due terzi “dio”, per un terzo uomo, ma mortale come tutti gli uomini. Vedasi l’ Appendice 4 per un breve riassunto del contenuto dell’ epopea. Il testo dell’epopea  non è completo. Le prime tavolette furono trovate negli scavi della biblioteca di Assurbanipal (688-627 a.C.) a Ninive, da Layard negli anni 1840. La prima affermazione che queste tavolette contenevano la storia caldaica del Diluvio avvenne il 3 dicembre 1872 a Londra, a cura dell’assiriologo George Smith. E’ ora noto, vedasi Pettinato (1992), che l’epopea nella versione della biblioteca di Assurbanipal (dove sembra fossero tenute quattro copie) consisteva di 12 larghe tavolette, ognuna delle quali con circa 300 linee. Attualmente si  conoscono circa 2000 linee. Altre tavolette potranno essere scoperte in scavi futuri o nei depositi dei musei. È interessante notare che le prime quattro linee dell’epopea furono ritrovate nel settembre 1998 da Theodore Kwasmann mentre frugava fra le collezioni del Museo Britannico (vedasi l’articolo di R.J. Head in Odyssey, luglio-agosto 1999). Le quattro linee, pubblicate in Nouvelles Assyriologiques Brèves et Utilitaires, sono date qui nel testo originale assiro e nella traduzione pubblicata:

(sha nagbu iimuru i) shdi maati
(xxx-ti iid) uu kalaama hhassu
(Gilgamesh sha n)agbu iimuru ishdi maati
(xxx-t)i iidu kalaama hhassu

Egli che vide il nagbu (fondamento del paese)
che conosceva… che era sapiente in tutte le materie!
Gilgamesh (che vide i nagbu), (fondamento  del paese)
che conosceva… che era sapiente in tutte le materie!

Nella traduzione il significato corretto di nagbu fu un punto di discussione. Nel dizionario assiro di Chicago la parola è tradotta come “totalità” o “fonte, sorgente, origine”. Vedremo alla fine di questo saggio un’ interessante relazione con “fonte”, in senso sia geografico sia etnografico.

Oltre alla versione assira dell’epopea trovata a Ninive, frammenti in diverse lingue, incluse quelle non semitiche hurriana, sumera e ittita, sono stati trovati in molti posti del Medio Oriente, la maggior parte precedenti il tempo di Assurbanipal. Almeno dieci documenti sono datati al periodo paleobabilonese (cioè al tempo di Hammurabi, circa 1800 a.C.), mentre una mezza dozzina di documenti in sumero sono della seconda metà del terzo millennio a.C.. C’è l’interessante possibilità che l’epopea sia stata composta originariamente da un consigliere di Gilgamesh (non un semidio apkallu, ma un umano ummanu), chiamato Silequinnini, vedasi Pettinato (1992).

Le opinioni sono divise circa la storicità di Gilgamesh. Gilgamesh è elencato nelle antiche tavolette come il quinto re della prima dinastia Uruk, spesso datata al periodo  3500-3100 a.C.. Ora documentazione dendrocronologica, vedasi Baillie (1999), suggerisce che verso il 3195 a.C. il nostro pianeta subì un evento climatico drammatico, possibilmente associato ad  un diluvio di origine extraterrestre (un impatto di cometa o asteroide o il passaggio ravvicinato di un grande oggetto celeste). Se questo è il diluvio di Utanapishtim/Ziusudra nell’epopea di Gilgamesh (e quello di Noè nella Genesi), databili al 3161 AC su argomenti che pubblicheremo,  allora la datazione della prima dinastia Uruk dovrebbe essere abbassata di alcuni secoli. Questo sarebbe in accordo con la revisione cronologica proposta negli ultimi cinquanta anni da parecchi autori, iniziando da Velikovsky (1953), vedasi anche Rhol (1998), che datano Gilgamesh all’incirca al 2500 a.C.. La seguente tabella fornisce alcune delle datazioni di Rhol.

Tabella 1: datazione della prima dinastia di Uruk

3500 a.C. Heskiagkasher (biblica Cush)
2900 a.C. Enmerkar (biblica Nimrod)
2800 a.C. Lugalbanda
2588 a.C. Dumuzi
2487 a.C. Gilgamesh
2348 a.C. Urlugal

Tabella 2: datazione delle prime quattro dinastie egizie

2789-2669 a.C.  Menes, prima dinastia
1669-2514 a.C.   seconda dinastia
2514-2459 a.C.   terza dinastia
2459-2350 a.C.  quarta dinastia

Rohl data il Diluvio all’incirca al 3100 a.C., ma c’è un problema nella sua cronologia. Infatti egli nota  che un diverso conteggio delle lunghezze delle dinastie basato sul Canone Reale di Torino stabilisce il 2898 a.C. come anno primo di Menes. Se prendiamo la data di Baillie (il 3195 a.C.) per il Diluvio e  notiamo che in accordo con Manetone ci fu in Egitto un periodo di 350 anni di confusione e crisi prima di Menes, allora dovremmo datare al 2845 a.C.  l’anno primo di Menes, circa a metà tra la data fornita dal  Canone di Torino e la data nella Tabella 2. In vista di errori probabili che possono riguardare sia la stima dendrocronologica (nonostante la grande accuratezza affermata dai suoi proponenti) che le sopravvissute liste (dove le coreggenze sono sempre state una questione difficile da sciogliere) sembra opportuno datare il Diluvio nel periodo tra il 3100 e il 3200 a.C.. Un elemento ulteriore per  questa datazione è fornito dall’ analisi dei carotaggi di ghiaccio a Camp Century, in Groenlandia, dove un intenso strato acido è stato identificato e datato al 3150 a.C., più o meno 50 anni.

In questo lavoro non discutiamo la storicità di Gilgamesh e la sua datazione. Non proponiamo spiegazioni delle straordinarie qualità di semidio che egli mostra nell’epopea (vedasi Sitchin (1980) per l’ interpretazione radicale che la madre “dea” di Gilgamesh fosse una femmina appartenente ad un gruppo di “dei” extraterrestri che avrebbero visitato la Terra, creato l’uomo con tecniche di ingegneria genetica, ed anche si sarebbero accoppiati con alcune femmine umane, come secondo la Genesi avrebbero fatto i Nephilim). Sotto l’ipotesi che l’epopea fosse basata su una reale esperienza di viaggio, cercheremo di identificare i percorsi dei due viaggi di Gilgamesh, il primo, insieme con l’ amico Enkidu, verso la “Foresta di Cedri”, il secondo, da solo, verso la montagna chiamata “Mashu”. I percorsi da noi proposti e le destinazioni finali sono completamente diversi, per quanto ci risulta, da quelli considerati nella letteratura esistente, dove le mete di Gilgamesh sono nella regione mesopotamica o anatolica. Affermiamo infatti che la destinazione finale di Gilgamesh fosse il cuore dell’Asia, la terra da dove erano emigrati i Sumeri, la terra che nel caso di una catastrofe di origine extra terrestre è la meglio protetta dagli effetti di uno tsunami globale e piogge torrenziali di lunga durata. Secondo la nostra tesi, Gilgamesh cercò di raggiungere il cuore dell’ Asia attraverso le due strade più naturali dalla Mesopotamia. La prima, più corta, ma con un tragitto molto difficile e passante per grandi altitudini, lo condusse ai passi del Karakorum (Kilik, 4755m, Mintaka 4709m, o Khunjerab, 4934m), probabilmente attraverso l’Iran, l’Afghanistan e il Kashmir, da dove avrebbe potuto raggiungere il  cuore dell’Asia attraverso il Karakol (fra Pamir orientale e Kunlun) e la regione del bacino di Tarim. Questo approccio fallì, o per la difficoltà dei sentieri montani, spesso chiusi da frane o valanghe, o per l’incapacità di Gilgamesh di acclimatarsi alla grande altezza dei passi, vicini ai 5000 metri. Gilgamesh e l’ amico Enkidu ripiegarono sull’ uccisione del “mostro”  Khubaba (suggeriamo  chi fosse) e tagliarono un grande cedro che riportarono a Uruk.

 

La seconda strada, di circa 3000 km più lunga, attraversava probabilmente terre meno popolate. Permetteva tuttavia l’accesso al cuore dell’Asia da un facile passo, le porte di Zungaria, alto meno di 500 metri. Il monte Mashu, meta del viaggio in quanto luogo dove viveva Utanapishtim, riteniamo sia il grande massiccio, chiamato ora Anye Machen in cinese, sacro per la locale popolazione degli Ngolok, circondato da tre lati dal Fiume Giallo, che localmente è ancora chiamato Maqu (pronunciasi “machu”), e le cui sorgenti non sono lontane. La sacra montagna fino agli anni cinquanta era chiusa agli stranieri. Il suo nome è un ovvio riferimento a Mashu e ad Anu, il più alto dio  del panteon dei Sumeri.

2. Il primo viaggio: alla Foresta dei Cedri.

Il primo viaggio conduce Gilgamesh e Enkidu alla Foresta dei Cedri, in una regione chiamata “Lebanon”, che si raggiunge via terra. Qui i due amici uccidono il mostro Khubaba (in assiro, Huwawa in ittito) e tagliano un grande cedro da trasportare al tempio di Enlil nella città di  Nippur. Tornano poi a Uruk via acqua, navigando un fiume chiamato “Eufrate”. Si suppone comunemente che la Foresta dei Cedri sia nell’attuale Libano.
Il viaggio è descritto nelle tavolette dalla II 184 alla V 266 del testo di Assurbanipal, con lacune soltanto parzialmente corrette con altri testi. Per la discussione dell’ itinerario, riportiamo i passaggi che contengono informazioni numeriche e geografiche, basati sulla versione italiana  dell’ epopea dovuta a Pettinato (1992). Iniziamo con passaggi dai testi assiri nella biblioteca di Assurbanipal.

1. II, 184-193
Khubaba il cui grido è violento…   può essere udito a 60 leghe attraverso gli alberi della foresta…  gli è stato ordinato  da Enlil di proteggere la Foresta di Cedri… una grande stanchezza si impadronisce di chiunque cerchi di entrare nella foresta…

2. II, 221-224
La mia mente è alterata. Partirò per terre lontane dove vive Khubaba. Voglio affrontare  una sfida anche se di esito incerto, voglio esplorare una via sconosciuta

3. III, 6-7
Lascia che Enkidu ti preceda, egli conosce la via nella Foresta dei Cedri

4. III, 48-51
Egli (Gilgamesh) intende intraprendere il lungo viaggio fino al luogo di Khubaba. Ingaggerà un combattimento di esito incerto, camminerà per sentieri sconosciuti fino al giorno quando, dopo un lungo cammino,  raggiungerà la Foresta dei Cedri.

5. IV, 1-6
Dopo 20 leghe mangiarono, dopo 30 leghe si fermarono per dormire, 50 leghe avevano fatto nella loro marcia quotidiana, una distanza di un mese e mezzo avevano fatto in 3 giorni, raggiungendo le “montagne del Libano”.

6. IV, 78:   Gilgamesh salì la montagna

7. IV, 84:   … sputa sangue…

8. IV, 87:   fu sopraffatto dal sonno

9. IV, 100:   lasciateci tornare indietro alle steppe

10. IV, 91:   perché sono così nervoso?

11. IV, 93:   perché mi sento così debole?

12. IV, 207-208
… un difficile cammino, che una singola persona non può facilmente prendere, meglio essere in due…

13. V, 2:  … essi furono stupiti dell’ altezza dei cedri…

14. V, 5
…vi erano  sentieri esattamente segnati, essi osservarono la montagna dei cedri, il luogo dove gli dei dimorano, il santuario degli Irnini, il cedro era alto e maestoso…

15. V, 5 (versione Uruk): quando tu (Enkidu) eri giovane, io ti vidi…

16. V, 255:   Gilgamesh tagliò gli alberi…

17. V, 258-265:
amico mio, il magnifico cedro è stato tagliato, non raggiunge più il cielo. Lo voglio usare per costruire una porta, di altezza 6 volte 12 spanne, di larghezza una spanna, il cardine superiore e inferiore di una spanna. Lascia che sia portato a Nippur dall’Eufrate.. . essi misero il tronco nel fiume, Enkidu lo guidò, Gilgamesh  portava la testa di Khubaba.

Informazioni da altre fonti:

18. Tavoletta Yale, 165:
Essi fecero delle assi di 3 talenti ciascuna

19. Tavoletta Yale, 170:
Gilgamesh e Enkidu ciascuno portarono 10 talenti di armi

20. Tavoletta Yale, 193:
La foresta si estendeva 60 leghe in ogni direzione

21. Tavoletta Yale, 247-250:
Lascia che Enkidu ti guidi, lasciagli controllare il percorso, egli conosce l’accesso alla foresta e ogni abitudine di Khubaba

22. Tavoletta Yale, 255:
(Shamash) ti può aprire la strada vicine

23. Tavoletta Yale, 262-269:
… nel fiume di Khubaba, come tu vuoi, immergi i tuoi piedi

24. Tavoletta di Baghdad 1-2:
Scala i crepacci delle montagne, gli dei hanno tolto il mio sonno….

25. Versione ittita:
Quando arrivarono alle sponde dell’Eufrate fecero un sacrificio … da lì dopo 16 giorni  arrivarono nel mezzo delle montagne…  poi osservarono i cedri… Gilgamesh e Enkidu tagliarono i cedri… quando Huwawa udì il rumore si adirò e disse: chi ha tagliato i cedri che ho fatto crescere?…

26. Huwawa disse: io ti sollevo, ti porto sulla collina, colpirò la tua testa, ti metterò nella terra nera!

27. Gilgamesh e Khubaba, 53:
Giovani uomini come lui, in numero di 50, vennero con lui…

28. Gilgamesh e Khubaba, 82:
I figli della vostra città che ti hanno accompagnato potrebbero non aspettarti a lungo ai piedi della montagna.

Nota.  La “spanna” è circa 60 cm. La “lega”, in Assiro Beru, è la distanza percorsa in due ore, comunemente stimata di 10 km ma forse 15 km o più.

3. Identificazione del luogo della Foresta di Cedri

Dai testi sopra citati, le caratteristiche della Terra dei Cedri sono le seguenti:

·        E’ molto lontana

·        Enkidu sa come arrivarci

·        La via terrestre di accesso era precedentemente “sconosciuta”, richiedeva un “lungo vagare” e nel tratto finale attraversava un difficile terreno “che una persona senza esperienza  non poteva facilmente  affrontare”, dove “è meglio essere in due”

·        La foresta è grande, si estende in ogni direzione per 60 leghe: è situata nella “montagna del Libano”

·        Un fiume di nome Eufrate attraversa la montagna; utilizzando il fiume come via d’ acqua è possibile ritornare a Nippur

·        Il viaggio si può dividere in due tappe. La prima equivalente a 45 giorni di viaggio, porta i due amici al “fiume Eufrate”. La seconda in 16 giorni li porta al centro delle montagne

·        Dal testo secondario Gilgamesh e Khubaba sappiamo che 50 amici di Gilgamesh lo aspettavano ai piedi della montagna. Sembra che costoro non lo abbiano accompagnato lungo il nuovo percorso via terra, quindi possiamo supporre che raggiunsero il punto di incontro da una via diversa, presumibilmente più facile e bene conosciuta

·        Khubaba poteva udire da “60 leghe” distante; il suo modo di trattare gli avversari era particolare: un colpo alla testa, sollevarli, portarli in salita, seppellirli nella terra nera

E’ usuale ipotesi che la destinazione del primo viaggio di Gilgamesh fosse un qualche punto delle montagne del Libano, dove i cedri esistono da tempi antichi (soltanto mezza dozzina sopravvivono ora in un  parco nazionale). L’identificazione della meta con il Libano sembra sostenuta nel testo dai riferimenti al Libano e all’Eufrate, malgrado che Libano sia un nome moderno per un paese noto nei tempi antichi come Fenicia o altri nomi e che l’ Eufrate passi a notevole distanza dal Libano. E’ nostra opinione che questa  identificazione debba essere respinta per i seguenti motivi:

·        è in  conflitto non risolvibile con varie affermazioni nel testo

·        porta a una impresa che è quasi fisicamente impossibile

·        è basaa su un’identificazione affrettata dei nomi tradotti, quantunque non scorretta, come “Libano” e “Eufrate”, con l’ attuale stato del Libano e con il fiume Eufrate della Mesopotamia

·        non corrisponde all’ itinerario descritto nel testo, specialmente per la fase terminale,  che è molto difficile e produce strani effetti sul corpo di Gilgamesh.

La nostra proposta è che la Foresta di Cedri fosse situata in Kashmir, nella regione montuosa tagliata dal fiume Indo e dai suoi numerosi affluenti. Proporremo che l’incontro con Khubaba ebbe luogo nelle regioni settentrionali del Kashmir, probabilmente nella valle Hunza, sulla via ad uno dei passi (Khunjerab o più probabilmente Mintaka) che conducono passando fra il Pamir Orientale e il Kunlun Occidentale al basso bacino di Tarim (ora in gran parte un deserto, il Takla-Makan, circondato da una serie di oasi) e quindi alla Cina attraverso la valle del Fiume Giallo. La valle di Hunza, lunga circa 30 km, altitudine tra i 1700 e 2500 metri, è un posto molto speciale con clima mite e dove crescono molte varietà di frutta. Il suo accesso naturale dalla cittadina di  Gilgit, circa 120 km in linea d’aria, era in passato, prima dell’apertura della superstrada del Karakorum, estremamente difficile, occorrevano due settimane, vedasi Bircher (1980). I passi che accedono al bacino del Tarim dalla valle di Hunza sono alti, scoscesi e difficili. Argomentiamo che la parola tradotta come “Eufrate” debba più correttamente e significativamente essere tradotta come il “Fiume delle vacche” o il “Fiume della fertilità”, da identificarsi con il fiume Hunza/Indo, mentre “Libano” dovrebbe essere tradotto come “Terra del latte”, con riferimento alla regione dell’alto Kashmir. Proponiamo che Gilgamesh e Enkidu raggiunsero l’Indo attraverso l’Iran, probabilmente passando per l’Afghanistan meridionale. Raggiunsero i loro amici ai piedi delle montagne del Kashmir in qualche luogo tra l’attuale Peshawar e Rawalpindi, non  lontano dall’antica Taxila, forse al punto dove si incontrato i fiumi Kabul e Indo (vicino alle attuali città di Attock e Nowshera).

La salita di 16 giorni al “centro delle montagne” avvenne dapprima lungo il fiume Indo, poi, nel punto dove l’Indo gira a est verso il Ladakh diretto alle sue due sorgenti a nord ed a sud del monte Kailas in Tibet, Gilgamesh ed Enkidu seguirono in direzione nord ovest gli affluenti Gilgit e Hunza. Identifichiamo, come detto prima, il “Centro delle montagne” con la valle Hunza, vero centro delle montagne, in quanto situata essenzialmente dove si incontrano quattro grandi catene montuose, il Karakorum, l’ Hindukush, il Pamir ed il Kunlun.  La valle  si eleva gradualmente da 1700 a 2500 metri, circondata da montagne ripide, e il fiume Hunza vi ha un letto piuttosto profondo, non facile da attraversare (tribù con usi diversi vivono sui due lati del fiume). La valle ha circa 200 villaggi, una popolazione di 10.000 persone a metà novecento, ora superiore a 35.000. Ogni parte di terra coltivabile è utilizzata per produrre cereali, ortaggi e frutti (circa 20 varietà di albicocche dal sapore eccellente, si conservano essiccate per l’inverno). Prima della costruzione della superstrada del Karakorum (aperta nel 1978 per uso soprattutto militare, e nel 1986 al transito pubblico) che entra in Cina attraverso il passo di Khunjerab, a 4602 metri, il passo più usato  era il Mintaka (4709 metri), quello dove probabilmente Gilgamesh era diretto. Il passo era usato già in tempi sumerici per importare alcuni prodotti dall’ Asia Centrale; oltre 10.000 petroglifi databili a vari millenni a.C. sono stati scoperti nella valle di Gilgit e dello Hunza durante i lavori per la costruzione della superstrada. E’ nostra ipotesi che per questa via Gilgamesh tentasse di attraversare il cuore dell’Asia per raggiungere il monte sacro Mashu, cui arrivò nel secondo viaggio con un percorso più lungo ma più facile.

Le nostre proposte sono basate sulle seguenti considerazioni:

·        La Foresta di Cedri. I cosiddetti cedri del Libano, nome scientifico Cedrus Libanotica, attualmente crescono  in numero molto limitato in Libano, Siria e Anatolia meridionale; il loro più grande habitat naturale, nella varietà Cedrus Deodara, è l’ Hindukush, vedasi l’ Appendice 2, dove anche osserviamo che il Cedrus Deodora è l’ unico legno ammesso ancora oggi in Asia per  statue e costruzioni sacre. Il legno di cedro poteva essere importato nel Medio Oriente dall’ India via mare, forse dai Fenici (la cui origine dal Mar Rosso è affermata in fonti classiche, vedasi già l’inizio delle Syorie di Erodoto) e dai naviganti indiani chiamati Pani (relazionati con i Puni/Fenici ?) che ben sapevano sfruttare i venti monsonici. L’ arrivo di legname, ed altri prodotti, dalla Valle dell’ Indo, sede di una grande civiltà prima dell’ invasione degli ariani Hindi, è ben documentato.

           Una ulteriore prova che la Foresta dei Cedri non fosse in Libano è l’  enorme dimensione assegnatavi nel testo. La foresta aveva un’estensione di “60 leghe”, cioè almeno di 600 km, in ogni direzione. Tale misura è incompatibile con le piccole dimensioni del Libano. Jebel Liban è lungo circa 120 km e largo non più di 40 km, Jebej el Sharqui (l’Anti Libano) è anche più piccolo. Delimitando il Kashmir con il bacino montano dell’Indo, allora questa regione è approssimativamente un rettangolo di oltre 700 per 500 km, in accordo con le affermazioni dell’epopea. E’ da notare che il Kashmir, ora parzialmente disboscato, era ai tempi antichi quasi completamente coperto di foreste. Ora i cedri possono vivere anche oltre i 4000 metri, come osservato in Tibet,  e l’orzo può crescere sopra i 4400 metri sui pendii della valle di Hunza. Al tempo di Gilgamesh, intorno alla metà del terzo millennio a.C. secondo la cronologia di Rohl, il mondo stava attraversando un periodo di ottimo climatico, con una fiorente civiltà megalitica nell’Europa settentrionale, con uva che cresceva in Svezia, e condizioni piovose in molte regioni ora aride, inclusa l’Asia Centrale, quindi i cedri avrebbero potuto essere di dimensioni particolarmente rilevanti. Cedri alti sui 60 metri con tronco di 6 metri sono stati osservati più volte in Tibet.

·        I termini Libano e Eufrate. “Libano” è una parola semitica che nel testo biblico rivelato, dove appaiono le sole consonanti, appare come LBN (la vocalizzazione fu introdotta tra il quinto e l’ottavo secolo d.C. dai Masoreti, quando l’antico ebraico non era più parlato da quasi mille anni). Ora una delle vocalizzazioni di LBN è leben, laban, che in ebraico ed arabo significano latte, prodotti vaccini. Così una possibile traduzione del termine LBN in un contesto geografico è  terra del latte. Allo stesso modo la parola di solito tradotta come “Eufrate” appare nel testo consonantico biblico come NHR PRT, dove NHR è vocalizzato come nahar, che significa “fiume”, mentre PRT è vocalizzato come farat, seguendo il modo attuale di chiamare il fiume Eufrate in Mesopotamia (nahar farat/furat). Tuttavia PRT può, senza violare le regole linguistiche, essere vocalizzato come PAROT, plurale di PARA, significante “vacche”, in ebraico, quindi ottenendo per NHR PRT il significato di fiume delle vacche, un termine correlato con la nostra proposta terra del latte. Ora le vacche, certamente presenti nel Medio Oriente al tempo di Gilgamesh, non erano il bestiame più comune, poiché la terra relativamente arida favoriva, in Mesopotamia come pure in Libano, Palestina e gran parte dell’Arabia, l’allevamento di pecore e capre. Le vacche e il latte sono abbondanti in India, dove le condizioni climatiche sono migliori e dove formaggio e yogurt sono fra i principali alimenti della la popolazione. Inoltre c’è una particolare caratteristica nella valle di Hunza, cioè la presenza di una vacca nana, non esistente altrove, grande come un cane San Bernardo, che produce circa 4 litri di latte al giorno, è molto utile per il trasporto e può pascolare sui pendii estremamente ripidi. Un ulteriore elemento che suggerisce l’ identificazione dell’ Eufrate con l’ Indo è un passaggio della poco nota Cosmographia di Aethicus Ister, un autore latino probabilmente del quarto secolo, recentemente tradotto da chi scrive, Spedicato (2014). In tale opera Ister prima parla di un fiume Eufrate che nasce dalle più alte montagne dell’ India sboccando nell’ Oceano Orientale, e trattasi sicuramente dell’ Indo, in quanto parla altrove del Gange; successivamente parla di un fiume che nasce nell’ Anatolia Orientale con un certo nome, che diventa chiamato Eufrate quando raggiunge la pianura mesopotamica. Il passaggio di Ister, che aveva avuto accesso ad informazioni geografiche raccolte in esplorazioni dei confini dell’ impero romano inviate da Cesare ed Augusto, suggerisce che l’ Eufrate della Mesopotamia fosse stato così chiamato da popolazioni ivi migrate dall’ oriente. Vedasi anche Spedicato (2002) per una individuazione del Giardino dell’ Eden nella valle di Hunza e quindi di una associazione dell’ Eufrate con l’ Indo.

·        La difficoltà del viaggio. L’epopea afferma che il viaggio fu lungo, difficile e per una strada sconosciuta. La via più breve per raggiungere il Libano (o la Palestina) da Uruk, ovvero  una linea retta attraverso il deserto della Siria, non è praticabile, poiché il deserto, principalmente di pietra gialla e rossastra, che giace tra la Mesopotamia inferiore e la costa del Mediterraneo (Al Widyan a Badet esh Sham, cioè l’ Arabia Deserta delle mappe tolemaiche) è estremamente povero di acqua ed era evitato nei tempi classici. Anche adesso l’area, come mostra una sua foto notturna da satellite nel Times Millennium Edition, 1999, è completamente scura nella notte, segno dell’assenza di insediamenti umani, mentre l’Arabia Saudita, tranne che per il deserto Rub-al-Khali, è punteggiata da molte macchie bianche, la maggior parte non dovute al metano bruciato nei campi petroliferi, ma a villaggi e città. Tuttavia c’è una via naturale e facile dalla Mesopotamia al Libano, utilizzata dalla maggiore parte dei viaggiatori, con un piccolo aumento della lunghezza totale del tragitto: seguire l’Eufrate (a piedi o in barca, non essendoci una forte corrente), fino ad una latitudine di circa 36°, vicino all’antica Tapsaco, poi attraversare una ondulata distesa di circa 150 km fino al fiume Oronte, quindi seguire l’Oronte  fino alle montagne del Libano via Homs, Baalbek e la Bekah. Si deve anche notare che le montagne del Libano, altitudine massima 3086 m, sono di facile accesso, con pendenze poco ripide.. La distanza totale da Uruk alla Bekah attraverso la strada descritta è di circa 1500 km. Tale distanza può essere coperta a piedi da un camminatore allenato in due o tre settimane, contro le sei settimane che l’epopea afferma furono necessarie per raggiungere i piedi della montagna. Notare anche l’affermazione geografica assurda, nello scenario di solito considerato, che il fiume Eufrate fosse stato raggiunto alla fine della prima tappa del viaggio! Inoltre è quasi certo che il percorso via terra al Libano (l’unica possibilità per mare avrebbe implicato la circumnavigazione dell’Africa…) fosse ben conosciuto già da prima dei tempi di Gilgamesh, in quanto già prima dei Sumeri,  in epoca ubaitica,  esistevano contatti tra l’area mediterranea e l’area del Golfo Persico. Assumere il Libano come la destinazione finale rimuoverebbe completamente gli elementi di difficoltà e di novità che caratterizzano il viaggio di Gilgamesh.

La nostra proposta è che Gilgamesh tentò un nuovo approccio via terra verso la regione dell’ Indo, sede, ai suoi tempi, di una grande civiltà, confrontabile con quella sumera e probabilmente più ricca, viste le più favorevoli condizioni climatiche e del suolo. Pensiamo tuttavia che la sua vera meta non fosse una esplorazione per fini commerciali, bensì di entrare nel cuore dell’Asia, alla ricerca di Utanapishtim, l’ uomo sopravvissuto al diluvio, e della terra originaria dei Sumeri. Egli fallì nel raggiungere questa meta nel  primo viaggio per le difficoltà dei sentieri del Karakorum, ma fu in grado di individuare una nuova strada via terra, che fu poi occasionalmente usata per motivi commerciali.

 Al tempo di Gilgamesh la civiltà della valle dell’ Indo e Sarasvati, nota ai Sumeri come Meluhha (terra del popolo del Meru?), a noi nota tramite le rovine di grandi città come Harappa e Mohenjo Daro, era in piena sviluppo. I contatti con i Sumeri avvenivano per via acqua (scendendo l’ Indo e poi navigando lungo la costa Baluchistan/Iran), ed erano bene sviluppati, come provato per esempio dagli scavi di Bibby (1970) in Bahrein, una apprezzata fermata per i naviganti per la ricchezza di fonti di acqua dolce. Fu forse un obiettivo di Gilgamesh anche cercare una nuova strada via terra, e discuteremo più avanti come Enkidu potesse essergli stato da guida. Il testo non fornisce alcuna indicazione precisa sulla strada presa da Gilgamesh. Forse nelle linee mancanti potrebbero trovarsi delle indicazioni, in quanto i due amici dovettero attraversare non solo aree disabitate ma almeno una regione di notevole sviluppo.

Segue una ipotesi sul tragitto seguito fra Uruk ed il fiume Indo, utilizzando le denominazioni attuali di città e regioni.

·        Attraverso lo Zagros centrale via la Mesopotamia inferiore, l’ Elam e la Persia. Secondo Bibby la costa meridionale dell’Irak non è molto cambiata dai tempi dei Sumeri. Così Gilgamesh potrebbe essersi mosso verso est, costeggiando il lato nord delle paludi dello Shatt-el-Arab, attraversando i fiumi Tigri e Karum vicino all’attuale Ahwaz ed entrando nelle montagne vicino all’attuale Behbehan.

·        Attraversando lo Zagros centrale passando dall’attuale Shiraz (vicino a Persepoli) e Saidabad (precedentemente Sirjan) verso Kerman, la capitale del Khorasan, l’antica Carmania. La strada passa per montagne che non superano i 3000 metri, bene fornite di acqua, abitate da millenni prima di Gilgamesh da tribù specializzate nel fabbricare tappeti e terraglie.

·        Verso il Sistan costeggiando il lato meridionale del deserto di Dasht-e-Lut via Bam e altre oasi. Al tempo di Gilgamesh il Sistan (l’antica Drangiana/Paratacene), una regione molto fertile di circa 30.000 chilometri quadrati, era una delle poche aree del mondo dove erano state costruite città circondate da mura di grandi dimensioni. Una delle principali attività in quest’ area era l’estrazione di minerali, in particolare di pietre dure preziose (turchese, agata, e forse anche rame), certamente anche per esportazione. Tra le città ricordiamo Shar-i-Sokhta, circa 60 km a sud di Zabol, sulla linea di demarcazione tra l’Iran e l’Afghanistan, con una popolazione stimata di almeno 10.000 persone (la popolazione di Uruk è stimata in 50.000 persone). Ricordiamo che le città del Sistan furono distrutte a metà del secondo millennio, forse in relazione con l’invasione ariana ed una possibile catastrofe naturale. Il nome Sistan è relativamente moderno, fu dato dopo che la regione venne invasa dai Saci, una tribù di Sciti, verso il 130 d.C. (SAKASTAN = SIGISTAN = SISTAN…). Il Sistan è il luogo delle avventure di Rustam, l’eroe dello Shanameh, il Libro del Re di Ferdowsi.

·        Dal Sistan ci sono due vie naturali per la valle dell’Indo. Quella meridionale va attraverso Zahedan, poi segue il lato meridionale delle colline Changai, abbastanza fornito d’acqua, a nord del deserto Baluchistan di Kharan. Entra nella valle dell’ Indo dopo Quetta attraverso il passo Balan, alto circa 1000 metri. Raggiunge il fiume vicino alla storica città di Sukkur, circa 60 km nord-est di Mohenjo Daro. La seconda strada segue il fiume Helmand verso Kandahar, poi costeggia il lato meridionale del’ Hindukush e giunge a Kabul attraverso alcune vallate e facili passi. Da Kabul segue il fiume ora chiamato Kabul (fino alla prima metà del 19esimo secolo era chiamato Peshawar) in una direzione orientale, e raggiunge l’Indo vicino a Nowshera, vicino alla confluenza del Kabul e dell’Indo (l’uso del passo Khyber sembra essere abbastanza recente, stando al prof. Luciano Petech).

E’ normale pensare che il punto di partenza per l’ascesa alle montagne della Foresta dei Cedri fosse vicino alla confluenza del Kabul e dell’Indo. Questo è anche il luogo probabile dove i 50 amici citati nel testo Gilgamesh e Khubaba aspettarono il ritorno della spedizione alla montagna. I 50 amici probabilmente arrivarono attraverso l’itinerario normale, cioè dal mare e dal fiume, la cui praticabilità con barche di canna fu provata da Heyerdahl (1980), vedasi anche Severin (1982). Poiché la navigazione lungo l’Oceano Indiano deve tenere conto  dei monsoni, questo significa che Gilgamesh iniziò il suo viaggio con tutta probabilità nel periodo maggio-giugno, quando i suoi amici potevano iniziare il loro viaggio per acqua con i monsoni favorevoli. Il monsone (il cui nome viene dalla parola araba MAWSIM = stagione) da ottobre ad aprile soffia da nord-est a sud-ovest, cioè dalle montagne tibetane verso le coste meridionali della penisola araba (tale monsone è soprattutto secco tranne che verso la fine; anche ai giorni d’oggi una parte del monsone porta piogge fino ai monti del Dhofar in Oman (regione abitata da tribù che parlano quattro idiomi non semitici ed hanno almeno nove suoni non semitici); da giugno ad agosto soffia nella direzione inversa, con piogge intense. I monsoni sono attivi solamente di sotto i 4000 metri.

Dal punto ipotizzato l’Indo entra nella catena montuosa Hindukush-Karakorum, caratterizzata da profonde e ripide vallate con cime che superano i 7000 metri (per esempio il K2, 8611 m, scalato per la prima volta da italiani guidati dal geologo Ardito Desio nel 1954, il Nanga Parbat, 8126 m, il Distagil Sar, 7885 m). Nel 1986, andando in Cina per la prima volta, ilo mio aereo Swiss Air, dopo una sosta notturna a Sharja negli Emirati, sorvolò il Karakorum nella prima mattina. Ancora ricordo vivamente la vista fantastica della più irregolare area montuosa che abbia mai contemplato da un aereo. Impressionanti i canyon molto profondi che serpeggiavano attraverso le montagne ricoperte di foreste. Lo splendido K2 si protendeva al cielo come una piramide proprio sotto l’aereo. Passato il K2 il cielo blu prese una tonalità grigio – giallastra che durò per almeno tre ore: effetto dei venti che sollevavano la polvere dei deserti del Takla-Makan e del Gobi.

Seguendo l’ Indo e i suoi affluenti si può raggiungere il cuore dell’Asia attraverso parecchi passi. Una via naturale è seguire l’ Indo (attraverso il Dardistan), poi il Gilgit, poi l’Hunza. Da qui seguendo il fiume  Khunjerabi si arriva al passo Khunjerab, in origine 4934 m, ora 4602 dopo il completamento della superstrada del Karakorum. Alla sua sinistra sta il passo Mintaka o Minteke, 4709 m, da dove nasce il fiume attualmente chiamato Ming-t’ieh-kai-ho dai Cinesi, che confluisce alla fine nel Tarim; questo passo e  era preferito prima della costruzione della superstrada del Karakorum (fu  probabilmente il passo da cui Gilgamesh cercò di passare). Possiamo dare le seguenti giustificazioni per l’ itinerario di montagna proposto.

·        Alcune informazioni circa la strada dovevano essere conosciute dal popolo nella valle dell’ Indo, poiché relazioni e commerci esistevano già tra la valle Indo e la Transhimalaya (scambi di seta e te). Petroglifi scoperti a migliaia durante i lavori per la costruzione della superstrada del Karakorum hanno indicato che tale via era frequentata almeno dal quinto millennio avanti Cristo.

·        La strada è la più diretta al cuore dell’Asia dalla valle dell’ Indo. Pensiamo che la meta reale di Gilgamesh già nel suo primo viaggio fosse di raggiungere il luogo di Utanapishtim per la via più breve. Affermeremo in un prossimo paragrafo che il luogo di Utanapishtim è una montagna sacra vicino alle sorgenti del Fiume Giallo. L’incapacità di superare il passo che portava al bacino del Tarim, fu probabilmente dovuta a  difficoltà di acclimazione e impraticabilità delle piste, fenomeno comune anche oggi, la stessa superstrada del Karakorum essendo spesso chiusa per le frane. Tale rinuncia portò Gilgamesh a sostituire lo scopo originale del viaggio con l’uccisione di Khubaba e il taglio di un grande cedro.

·        Numerosi nomi nella regione Hunza posseggono curiosamente la prima sillaba di Khubaba, indicando una possibile origine e significato comune. Questi sono:

–          i nomi del passo e del fiume, KHU-njerab, KHU-njerabj

–          il nome del fiume HU-nza; questo è anche il nome della valle ed è l’antico nome della principale città, poi chiamata Baltit e recentemente Karimabad, in onore dell’ Agha Khan Karim che ha molto investito nella valle

–          il nome di altre piccole città: KHU-dabad, Mor-KHUn….; un controllo dei nomi dei circa 200 villaggi nella valle potrebbe arricchire questo elenco

–          KHU-rukuts, il nome di uno dei quattro clan della popolazione locale.

Osserviamo che KHU è spesso seguito da N nei nomi sopra citati, se la nostra correlazione è corretta, forse la pronuncia esatta della sillaba sumera KHU potrebbe essere più vicina a KHUN.

Alcune informazioni sulla popolazione locale sono interessanti, anche se non collegabili ai viaggi di Gilgamesh, poiché probabilmente egli attraversò montagne quasi spopolate. La popolazione locale sono i Burusho che parlano una lingua, il Burushaski, dal lessico ricchissimo e apparentemente senza relazione con ogni altra lingua del mondo (sebbene per alcuni, come il prof. Merrit Ruhlen di Stanford, siano individuabili collegamenti con il basco e la lingua siberiana na-dene).  I Burusho sono fisicamente molto forti (uno di loro fece parte della spedizione italiana del K2 e passò con Bonatti la famosa notte all’ addiaccio a 8000 metri…), camminatori veloci sui sentieri scoscesi, hanno una mortalità infantile bassissima, diventano comunemente centenari, generano figli anche ad età avanzata, mantengono  vista e udito perfetti fino ai loro ultimi giorni; prima dell’apertura della superstrada del Karakorum, la loro dieta era basata su pochissimi grassi ma su molta frutta.

Sospettiamo che la valle di Hunza, altitudine tra i 1700 e 2500 metri, fondovalle in moderata pendenza (ma con accesso da Gilgit molto difficile, da cui la necessità di “essere in due”), ora bene coltivata, era il posto dove Gilgamesh trovò la grande foresta di cedri, intersecata da sentieri e “vigilata” da Khubaba. Sospettiamo che qui il grande cedro fu tagliato, per essere trasportato alla pianura dalla corrente del fiume. Sembra che l’incontro con Khubaba sia accaduto al termine della valle, ad altezza superiore, poiché i sintomi indicati nell’ epopea, debolezza, fatica, strani sogni, perdita di sangue, sonnolenza, sono chiari sintomi di male di montagna. Il fatto che questi sintomi riguardassero Gilgamesh e non Enkidu è una cosa interessante e una possibile spiegazione sarà proposta. Gilgamesh era un uomo della pianura mesopotamica ed un veloce camminatore. Dalla valle di Hunza il sentiero sale molto ripidamente verso il passo Mintaka, creando problemi di acclimatazione a Gilgamesh forse quando superò i 4000 metri. L’incapacità di raggiungere il bacino del Tarim può essere spiegata tuttavia, oltre che dal suo male di montagna, dalla possibile chiusura del passo a causa di frane e valanghe. Poiché le valanghe sono spesso provocate dalla forte voce umana, ci si chiede se le alte grida di Khubaba possano avere attivato una valanga.

4. Numeri del primo viaggio

L’ epopea afferma che il percorso da Uruk all’ Eufrate, da noi identificato con il fiume Indo, era equivalente a un mese e mezzo (a circa 45 giorni) di normale viaggio, ma venne effettuato in 3 giorni, che corrispondono ad una distanza totale di 150 “leghe”, o, in Assiro, “beru”.

Lasciando da parte la domanda di come questa distanza possa essere stata percorsa in tre giorni (pensiamo ad un significato simbolico o retorico, se non all’uso di qualche macchina specialo), notiamo che 150 beru implicano una distanza di almeno 1500 km, forse anche di oltre 2700 km. Essendo un beru equivalente alla distanza percorsa a piedi in due ore, presumibilmente nella regione piana della Sumeria, tale distanza era dipendente dalla velocità media del camminatore. Oggigiorno una persona cammina facilmente 12 km in due ore; le persone bene allenate nel camminare, che era il modo normale di muoversi ai tempi dei Sumeri, potevano certamente fare più di 12 km in due ore, forse anche 18 km (notare che  tecniche per camminare velocemente furono sviluppate nell’altipiano del Tibet, come osservato da Alexandra David Néel). Ora la più breve distanza in linea d’aria (la geodetica) tra Uruk e il punto d’unione fra i fiumi Indo e Kabul è circa di 2400 km. Se le 150 leghe sono da considerare come la distanza più corta tra i due punti, allora il valore del beru sarebbe di 16 km, certamente accettabile. Le strade esistenti non seguono una geodetica ed hanno tortuosità inevitabili. Una ragionevole stima dovrebbe essere all’incirca 4000 km. Tale distanza può certamente essere percorsa in 45 giorni da una persona allenata che conosca il percorso. Gilgamesh ed Enkidu, e la maggior parte dei loro contemporanei, erano certamente bene allenati nel camminare per lunghe distanze. L’ epopea inoltre afferma che Enkidu conoscesse il percorso (suggeriremo il perché più avanti). Ora 4000 km diviso per 45 fa un cammino medio di circa 90 km al giorno. Che tale percorrenza non sia un fatto impossibile è dimostrato dai seguenti esempi:

·        Fyona Campbell, vedasi il suo libro On foot through Africa, Orion, 1994, ha attraversato a piedi  Nord America, Australia, e Africa (da Città del Capo a Tangeri, oltre 17.000 km). In Africa di solito faceva tappe giornaliere di 50 km, nella meno interessante Australia spesso faceva 80 km al giorno. Non è una donna alta. Camminava circa 10 ore al giorno, dedicava molto tempo alla lettura, a lavarsi, ad ascoltare le notizie alla radio (due persone con una jeep la aspettavano), a parlare ed anche a flirtare con i suoi accompagnatori.

·        Geronimo, il ben noto capo degli Apache, era solito fare delle incursioni contro i Messicani, che odiava da quando gli avevano ucciso  moglie e  bambini. Operava nella selvaggia Sierra Madre, che ha i canyon più profondi nel mondo, salvo quwello da Gilgit a Hunza. Era  uomo di statura alquanto bassa. Nella sua bibliografia, vedasi Barrett (1906), si afferma che faceva usualmente 65-70 km al giorno durante questi raid.

·        Come affermato in Polibio III, 41 (un brano letto 40 anni fa, quando avevo 15 anni; ne fui impressionato e lo ricordavo bene; ho verificato e la mia memoria era corretta!), i Romani si aspettavano che Annibale invadesse la Sicilia. Quindi il corpo principale dell’esercito guidato da Tiberio Sempronio fu collocato vicino a Lilibeum, l’attuale Trapani, in Sicilia, sulla costa che sta di fronte a Cartagine. Quando arrivò la notizia che Annibale sarebbe passato dalle Alpi, l’esercito fu spostato a Rimini (il più facile accesso dalle Alpi a Roma a quel tempo era via il Piceno) in appena 40 giorni (Polibio III, 68), con un cammino medio di circa 50 km al giorno. Notare che i Romani erano di solito tarchiati e bassi. Inoltre portavano armi pesanti (il pilum pesava almeno  30 chili) e cibo per 40 giorni (lardo, aceto e grano non macinato), per un peso totale certamente maggiore del loro peso corporeo. Notare anche che un intero esercito non può muoversi velocemente come  singole persone.

·        John Chardin nel suo Travels in Persia, 1673-1677, volume secondo, capitolo XII, Dover Press, 1988, descrive una gara di  marcia che si faceva ogni anno in cui il vincitore camminò dalle 4 di mattina alle 6 di sera, percorrendo 36 leghe francesi, cioè circa 160 km, ad una velocità media di 13 km per ora; disse che il popolo si lamentò che il vincitore non era stato molto bravo, poiché nel regno di Sha Sefy il vincitore aveva compiuto il percorso in 12 ore, mediamente a 15 km per ora. Chardin tentò di seguire l’uomo quando nelle ore calde del giorno camminava più lentamente, ma non riuscì a tenerne il  passo.

·        Giulio Cesare impose al suo esercito in parecchie occasioni marce giornaliere di circa 100 km, in un territorio pieno di foreste, paludi e spesso coperto da uno o più metri di neve.

Considerati gli esempi sopra, e il fatto che Gilgamesh e Enkidu erano persone di grande statura, forti e allenate, crediamo che  fosse loro perfettamente possibile raggiungere l’ Indo da Uruk in 45 giorni a piedi.

La salita al Centro delle Montagne dove si trovava la Foresta dei Cedri durò 16 giorni. La descrizione della Foresta (con buoni sentieri curati da Khubaba) non sembra riferirsi ad una foresta primitiva e selvaggia su pendii di montagne ripide, ma ad una foresta in qualche modo curata in un’area piuttosto piana. Ipotizziamo che la Foresta di Cedri fosse nella valle di Hunza, lunga una cinquantina di km, larga una decina e degradante dolcemente. La valle di Hunza può attualmente essere raggiunta con la superstrada del Karakorum dal punto di incontro del Kabul con l’Indo dopo circa 600 km (oppure  per via della strada dei passi Malakand e Shangla dopo circa 530 km). Lungo antichi sentieri la distanza doveva essere diversa, ma è difficile stimare se  più lunga o più corta (alcuni antichi sentieri tagliano direttamente per pendii molto ripidi dove le strade moderne devono invece serpeggiare). Una distanza di 600 km in 15 giorni corrisponde a circa 40 km al giorno, una percorrenza circa la metà di quella realizzata nel percorso più facile da Uruk all’Indo; 40 km al giorno sulle montagne è certamente possibile (quando ero quattordicenne e mi trovavo nella casa estiva del Collegio Rotondi a Campestrin, nelle Dolomiti, erano frequenti escursioni di 14 ore, fino a 3000 metri d’altitudine e per circa 40 km; eravamo stanchi morti alla sera!). Il sentiero da Chilas, vicino Gilgit, all’inizio della valle di Hunza (i villaggi di Chilt e Pissan) è molto difficile, con salite e discese, poiché il letto del fiume non può essere sempre seguito per la strettezza della valle. Non porta tuttavia ad altezze superiori a quelle nel tratto dallo Zagros o dal Sistan alla valle dell’ Indo. Quindi i sintomi di male di montagna di Gilgamesh, chiaramente descritti nell’epopea, non sarebbero avvenuti prima dell’arrivo alla valle di Hunza. Dunque è probabile che l’evento finale, l’incontro con Khubaba, avvenne ad altezze più elevate, sulla via dei passi del Karakorum, sopra i 4000 metri. Ricordiamo che l’altezza limite per gli alberi in quella regione è ora vicina ai 4500 metri ma che ai tempi di Gilgamesh, un periodo di condizioni climatiche favorevoli, era forse più alta. Un ulteriore motivo del perché l’incontro con Khubaba debba avere avuto luogo sui 4000/5000 metri è dato nella prossima sezione.

Non crediamo che il vero scopo del primo viaggio fosse di uccidere Khubaba o di tagliare i cedri. Pensiamo che il viaggio dovette terminare prima di potere entrare nel bacino del Tarim per le seguenti ragioni:

·        la battaglia con Khubaba era difficile; inoltre Khubaba non era solo, altri suoi simili erano nella regione

·        a causa del mal di montagna e della necessità di dover salire ancora per un lungo tratto, Gilgamesh si sentì incapace di continuare

·        il sentiero era forse stato reso impraticabile da frane o valanghe.

Dopo l’uccisione di Khubaba, Gilgamesh ed Enkidu tagliarono un grande cedro da  portare a Nippur per costruire una porta per il grande tempio di Enlil. E’ presumibile che la porta dovesse essere costruita usando tavole fatte di un pezzo unico. Essendo l’altezza della porta di 72 spanne, corrispondenti a circa 43 metri, il cedro doveva essere lungo almeno 45 metri, con un probabile diametro medio di oltre 2 metri. I cedri delle foreste antiche potevano certamente raggiungere quest’ altezza (ricordiamo che secondo Strabone gli alberi di tasso, che  attualmente non hanno dimensioni gigantesche, sulle montagne della Liguria potevano raggiungere un diametro di oltre 4 metri!). Quindi il volume del cedro tagliato poteva superare i 150 metri cubici con un peso di almeno 100 tonnellate. Era certamente possibile tagliare un albero di tali dimensioni usando le enormi asce in dotazione di Gilgamesh e Enkidu (si ricordi che Mirone di Crotone  tagliava alberi giganti  usando le mani come cuneo; finché una volta non riuscì a districare le mani dalla stretta di un albero gigantesco e morì divorato dagli animali selvaggi…). Ora, tagliato un grande cedro nella valle di Hunza, era  probabilmente possibile farlo rotolare nel fiume Hunza, le cui acque lo avrebbero trasportato sino al luogo, fuori delle montagne, dove attendevano i 50 amici; da qui avrebbe potuto essere trasportato con dei navigli sino alla Sumeria, lungo la ben conosciuta via d’acqua usata nel commercio tra Meluhha e la Sumeria. Notiamo ancora che sarebbe stato impossibile realizzarne il trasporto se il cedro fosse stato tagliato nelle montagne del Libano. Infatti, anche supponendo che l’Oronte avesse abbastanza acqua e pendenza per trasportarlo al più vicino punto da cui raggiungere l’ Eufrate, cioè alla regione di Hama, da lì l’enorme tronco avrebbe dovuto essere portato a mano, spinto o tirato per oltre 100 km di terreno non proprio pianeggiante. Questo avrebbe significato un carico di almeno due tonnellate per ogni uomo, una fatica impossibile, che poteva inoltre comportare un danno notevole al tronco. Inoltre pensiamo che un tale lavoro faticoso da schiavo non era appropriato per una persona per due terzi divina e per i suoi amici, certamente scelti tra le famiglie di rango più alto a Uruk. Pensiamo che la questione del trasporto del tronco di cedro sia cruciale per rifiutare l’attuale Libano, come il luogo dove il cedro fu tagliato.

5. Chi erano Khubaba e Enkidu?

Qui presentiamo una ipotesi sulla natura di Khubaba e di Enkidu. Ignorando la possibilità che i due personaggi siano immaginari o di valenza simbolica, vediamo quali creature reali possano essere stati.

Secondo il nostro scenario l’incontro con Khubaba ebbe luogo nel cuore delle alte montagne tra l’Indo, il Tarim e il bacino Amu Darya, una regione dove si uniscono le quattro grandi catene del Karakorum, Pamir, Hindukush e Kunlun. Che questo sia stato un luogo molto speciale nella storia dell’ umanità è tema di un altro lavoro di questo autore, vedasi Spedicato (2001). Abbiamo osservato che l’incontro con Khubaba avvenne probabilmente sulla via del passo Mintaka e ad un’altezza sopra i 4000 metri, considerati i sintomi di male di montagna mostrati da Gilgamesh. E’ importante notare che Enkidu non mostrò tali sintomi. Ora è un fatto noto da tempi molto antichi che i popoli delle regioni dell’ Himalaya, Karakorum, Pamir, Kunlun e fino all’ultimo secolo anche del Caucaso, credano fermamente nell’esistenza nelle loro montagne di grandi creature bipedi con le seguenti caratteristiche:

·        sono alti, oltre i 2.5 metri, molto pelosi, con gambe piuttosto corte ma braccia che raggiungono le ginocchia; sono dotati di un udito straordinariamente buono

·        vivono in caverne, sui 5000 metri di altezza

·        si tengono nascosti durante il giorno, cacciano di notte, specialmente nelle notti nebbiose, ma sono occasionalmente visti al crepuscolo

·        di solito non attaccano l’uomo e nemmeno mangiano carne umana. Mangiano radici e carne di animali. Amano in particolare la carne dello yak. Nella notte  si avvicinano ai luoghi recintati dove sono tenuti gli yak, vi penetrano spesso smuovendo le pietre della recinzione, uccidono l’animale colpendone la testa con il loro potente pugno, fuggono con lo yak sotto le loro braccia, salgono la montagna e nascondono la  preda sotto terra per tenerla nei giorni successivi al di fuori della portata degli avvoltoi

·        occasionalmente rapiscono esseri umani con i quali hanno rapporti sessuali, da cui può essere generata una prole vitale.

 Queste creature sono conosciute con nomi differenti, il nome comune in occidente, “yeti”, è solo un nome locale in Nepal che significa “l’uomo nelle rocce”. Tra gli altri nomi ricordiamo tshemo, dremo, tschemong, meti, sciukpa, migo, baman, jangal.

La maggior parte delle persone pensa che le storie sullo yeti (useremo questo nome comune) siano frutto di immaginazione. Questa era anche l’opinione del grande scalatore Rheinold Messner, fino al 19 luglio 1986, quando, mentre stava camminando sulle alte regioni del Mekong nel sud-est del Tibet, sul percorso da Chambo a Nagqu, vicino al piccolo villaggio di Alando, all’imbrunire  vide non lontano di fronte a lui una grande creatura, alta più di due metri, che si muoveva velocemente e silenziosamente. Fu molto sorpreso e quasi non credeva ai suoi occhi. Raggiunse il posto dove c’era stato quell’essere e  vide e fotografò un’orma grande e profonda nel suolo soffice e umido. Alcuni minuti più tardi rivide la creatura, che si muoveva veloce, fermandosi ogni tanto, emettendo suoni sibilanti. Aveva gambe tarchiate e lunghe braccia. Scomparve salendo per la montagna, correndo con entrambe le gambe e le braccia. Lasciò un forte odore fetido, un misto di burro rancido, aglio ed escrementi. L’impronta del piede era di circa 20-30 cm.

Ci sono stati avvistamenti dello yeti da attendibili testimoni occidentali, per esempio nel 1921 dal colonnello Howard-Bury, che condusse la prima spedizione per raggiungere la vetta del monte Everest; dall’ufficiale Polacco Rawicz, che nella sua fuga da un  lager sovietico verso l’India vide uno yeti vicino a Bajkal, alto circa 2.4 metri, torace enorme, braccia che raggiungevano le ginocchia, sembrava un ibrido tra un umano e una scimmia. Alla fine del 19esimo secolo una femmina yeti, chiamata Zana, fu presa e tenuta in cattività in uno stato semi-domestico nel villaggio del Caucaso di Tkhina, come documentato in rapporti ufficiali basati sulle testimonianze locali raccolte dagli accademici Porsnev e Maskontsev. Aveva un enorme corpo peloso, usava le pietre come armi, poteva correre più veloce di un cavallo, non era capace di parlare ma emetteva suoni, aveva un udito estremamente buono, la sua faccia era terrificante con occhi rossicci. Zana imparò a fare semplici lavori, come raccogliere legna. Si accoppiò con i maschi del villaggio generando bambini! Non appena un bambino era nato, lo lavava nelle acque fredde del fiume locale, col risultato in molti casi della morte del piccolo. Quattro neonati tuttavia sopravvissero, furono portati lontano da lei e si svilupparono come persone normali. L’ultimo della sua prole, chiamato Khvit, morì nel 1954.

In un’altra storia una donna, che viveva nel villaggio chiamato Hushe in Baltistan non lontano da Hunza, fu presa da uno yeti ed ebbe bambini da lui. Quando gli abitanti del villaggio la trovarono uccisero i suoi bambini, malgrado le sue proteste. Ella fu riportata al villaggio, dove lo yeti ancora cercò di riprenderla. Questa storia fu raccontata a Messner nel 1997. Le informazioni citate sopra sono tratte soprattutto da Messner (1999).

E’ evidente, da quanto sopra esposto, che Khubaba condivide con lo “yeti” parecchi elementi: grande corpo peloso, udito estremamente buono (ode suoni da almeno 600 km; ricordiamo che gli elefanti sentono a parecchie centinaia di km di distanza, le balene ad oltre 1000, gli uccelli che migrano dall’Artico all’Antartico probabilmente sentono suoni da oltre 10.000 km; tale udito è nel campo di bassa frequenza, in relazione con le onde lunghe atmosferiche prodotte dalle strutture macrogeografiche, e, fatto particolarmente interessante, il modo speciale di trattare  le sue prede: colpirle sulla testa, sollevare il corpo sotto il braccio, portarlo in alto sulla montagna, nasconderlo nel terreno. Quindi è naturale ipotizzare che Khubaba fosse un grande yeti, un esemplare di una popolazione di creature quasi umane acclimatate alle grandi altezze. Messner crede che lo yeti sia una varietà di orso sconosciuta. Tuttavia le storie persistenti dell’accoppiamento yeti-uomo con generazione di prole, se vere, necessariamente implicano una forte somiglianza genetica fra i due esseri; inoltre la storia che il bambino di Zana crebbe come una persona normale implica una essenziale equivalenza del materiale genetico. Qui certamente abbiamo una delle più affascinanti questioni sull’origine e l’evoluzione dell’homo sapiens.

I fatti esposti inoltre suggeriscono che Enkidu, che Khubaba afferma di avere incontrato quando era giovane, potesse essere stato la prole di uno yeti, e che era capace di superare la divergenza culturale tra “l’uomo selvaggio” e “l’uomo civile” non a causa del suo amore con la sacra prostituta, ma perché era stato catturato molto giovane dal cacciatore che informò Gilgamesh dell’ esistenza di questo fortissimo uomo selvaggio (il cacciatore potrebbe avere ucciso i suoi genitori o trovato lui orfano). Forse addirittura il cacciatore aveva avuto una “moglie yeti”, di cui  era riluttante a parlare, così che la vera storia dei primi anni di Enkidu è taciuta dall’epopea. Questa ultima ipotesi spiegherebbe come Enkidu poteva comunicare con Khubaba e come anche poteva parlare sumero. Questi due fatti sono lasciati senza spiegazioni nel testo. Non potrebbero avere altra spiegazione se non un di evento straordinario, o di storie immaginarie.

L’epopea afferma che Enkidu conosceva il percorso. Poco dice sul cacciatore che informò Gilgamesh di Enkidu. Si trattava forse di un cacciatore che anche lui viaggiava molto, abituato a muoversi sulle vaste steppe ad est del Tigri, sulle montagne e altipiani dell’Iran e oltre. Egli poteva avere già visitato i luoghi del Karakorum dove andò Gilgamesh. Le sue gesta dovevano chiaramente essere censurate, per non diminuire la gloria del re. Si sa che i cacciatori primitivi non avevano problemi a camminare centinaia di chilometri durante una singola caccia. Coronado descrive gruppi di Indiani che inseguivano gli immensi branchi di bisonti dal Golfo del Messico all’attuale Canada. Van der Post scrive che un Boscimano inseguì un animale che aveva solo ferito con la sua freccia per 800 km fino a che la bestia si accasciò; questo cacciatore era capace di identificare le impronte dell’animale ferito tra le centinaia di altre impronte degli animali del branco.

5. Il secondo viaggio. Informazioni numeriche e geografiche

Il secondo viaggio aveva come destinazione il monte Mashu, dove abitava Utanapishtim (in assiro; Ziusudra in sumero), un uomo sopravvissuto al Diluvio, al quale era stata concessa l’immortalità dagli dei. Gilgamesh sperava di ottenere anche lui l’immortalità, avendo passato un periodo di forte depressione al pensiero della morte, specialmente dopo la scomparsa dell’ amico Enkidu.

Nel seguito diamo le informazioni contenute nei testi sopravvissuti, basandoci su Pettinato (1992).

Tavolette della libreria di Assurbanipal.

1. IX, 5-9:
Vagavo per le steppe. Stavo andando al luogo di Utanapishtim, il figlio di Ubartutu. Mi muovevo veloce. Nella notte avevo raggiunto un passo di montagna. Avevo incontrato dei leoni, ero spaventato

2. IX, 36:
Il nome della montagna è Mashu

3. IX, 55-59
Chi sei tu che vieni da lontane strade, che hai vagato fino a giungere alla mia presenza, attraversando con difficoltà veloci corsi d’acqua ?

4. IX, 132-134
Gilgamesh, non essere spaventato! Io apro per te la via per il monte Mashu, attraversa senza paura montagne e colline!

5. X, 1
Siduri, la locandiera che vive lontano sulla riva del mare..

6. X, 43-47
Perché hai l’aspetto di qualcuno che ha viaggiato per lunghe distanze? Perché la tua faccia mostra i segni di calure e di geli? Perché vaghi coperto solo da una pelle di leone?

7. X, 76-91
Gilgamesh insiste: per favore, ostessa, qual’ è la via per Utanapishtim ? Datemi informazioni precise. Se necessario attraverserò il mare, altrimenti prenderò il percorso per la steppa.

Gilgamesh, non c’è mai stata una barca capace di effettuare questa traversata, nessuno in memoria ha mai attraversato questo mare. Solo Shamash può attraversarlo… La traversata è difficile, piena di pericoli, al centro ci sono acque letali che rendono impossibile la navigazione. Come, Gilgamesh, puoi attraversare questo mare? Una volta che tu arrivi alle acque mortali, che cosa farai?

C’è tuttavia, Gilgamesh, il barcaiolo di Utanapishtim, di nome  Urshanabi. Lo puoi trovare che taglia alberi nel bosco, vicino alla “stela”

8. X, 156-160
Gilgamesh, prendi un’ ascia, vai nel bosco, taglia tavole di 30 metri di lunghezza, lavorale lisce, portamele

9. X, 166-170
Gilgamesh e Urshanabi entrarono nella barca e incominciarono il viaggio. Per un itinerario di un mese e mezzo attraverso la terra di…    essi impiegarono tre giorni. Poi Urshanabi arrivò alle acque della morte

11. XI, 194-195
Ora permetti che Utanapishtim e sua moglie siano come dei. Permetti che Utanapishtim abiti lontano, alla foce dei fiumi

12. XI, 257-258
Gilgamesh e Urshanabi entrano nella barca. Slegano la barca e cominciano il viaggio di ritorno

Tavoletta di Berlino/Londra

13. 100-104
Così Gilgamesh parlò a Surshanabu: Gilgamesh è il mio nome. Sono venuto da Uruk, da Eanni, ho vagato per le montagne. Ho fatto un lungo percorso verso il sole nascente

14. 115-119
Le “stele”, Gilgamesh, sono la mia guida, così che io evito le acque della morte. Nella tua furia  le hai rotte.  Le tengo con me, così che esse possano guidarmi

Versione Ittita
Il dio della Luna (Sin) disse: porta questi due leoni che hai ucciso nella città, portali al tempio di Sin

Versione Ittita di  Friedrich (1930), citata da Sitchin (1980)
Dopo la traversata delle acque della morte con Urshanabi arrivarono a Tilmun, e si diressero al monte Mashu per una strada diritta, nella direzione del grande mare lontano. Sulla strada c’era la città di Itla, sacra al dio Ullu-Yah

6. Identificazione della strada del secondo viaggio

Secondo l’ipotesi qui proposta, Gilgamesh arrivò al cuore dell’Asia, al monte Mashu, che identificheremo con un grande massiccio, situato vicino alle sorgenti del Fiume Giallo, ancora sacro per la popolazione locale, la tribù degli Ngolok. Poi ritornò a Uruk per via d’acqua, dapprima discendendo il Fiume Giallo (per circa 4000 km), poi costeggiando il lato orientale-meridionale dell’Asia, per almeno 15.000 km. Così Gilgamesh effettuò un viaggio di dimensioni veramente epiche, forse, dopo di lui, superato, in termini di lunghezza e ma non di difficoltà, soltanto da Ibn Battuta, che attraversò il Sahara, il deserto fra gli Urali e l’ Aral,  visitò Cina, India, e nove volte la Mecca…

Gilgamesh raggiunse il monte Mashu per una strada della quale aveva solo vaghe informazioni. La distanza percorsa nel secondo viaggio fino alla meta era di circa 3000 km più lunga di quella che sarebbe stata percorsa con il primo itinerario, ma ora non dovette attraversare le difficilissime catene del Karakorum. Prese una strada attraverso  steppe disabitate, con difficoltà dovute a sabbie mobili, paludi salate e mancanza d’acqua dolce. Sicuramente fu essenziale l’ aiuto di Urshanabi nei circa 3000 km che lo separavano dalla meta una volta giunto al “mare” dove incontrò Siduri, la custode del tempio di Sin.

E’ opportuno a questo punto, prima di svelare la destinazione finale, spiegare come l’ itinerario proposto sia venuto in mente a questo autore.  Lessi per la prima volta l’epopea di Gilgamesh nella popolare edizione Penguin Book, nel 1971, mentre ero in visita all’ Università dell’ Essex in Inghilterra per ricerche sui metodi Quasi-Newtoniani con il noto matematico Charles Broyden. Durante la mia visita fu data una rappresentazione teatrale dell’epopea di Gilgamesh, dove un attore e una attrice stark naked rappresentavano l’incontro erotico di Enkidu e della sacra prostituta Shamkhat (il giorno seguente un collega del Dipartimento di Computer Science mi chiese: ti è piaciuta la recitazione di mia moglie? Era lei Shamkhat). Già a quel tempo avevo dubbi sulla reale destinazione dei viaggi di Gilgamesh. Parecchi anni dopo, avendo riletto l’epica nella versione di Pettinato del 1992, cercai nell’enciclopedia Treccani notizie sui cedri del Libano. Con grande interesse trovai che i cedri sono comuni in Kashmir nella varietà Cedrus Deodara. Poiché il bacino dell’ Indo e la Mesopotamia al tempo di Gilgamesh erano in  documentato contatto via mare, fu naturale ipotizzare che raggiungere il bacino dell’ Indo per una nuova via potesse essere un importante obiettivo (personale ed anche politico, in vista di iniziali tendenze verso forme di “imperialismo”) per una persona di forte volontà, intelligente e fisicamente dotata come il re Gilgamesh. Conviene qui ricordare l’ interesse per l’ India ed il Kashmir di grandi personalità come Alessandro Magno, Sesostris I il Grande, almeno secondo fonti classiche (Diodoro, Erodoto) che gli storici moderni non accettano, ed infine probabilmente  Salomone, ad un cui viaggio si riferiscono almeno tre monumenti, chiamati takht-e-Suleiman, nel bacino dell’ Indo ( Baluchistan pakistano, presso Taxila e a Srinagar). Qui aggiungiamo con riferimento alla identificazione proposta dell’ Eufrate con l’ Indo, che l’ affermazione biblica che il regno di Salomone aveva come confine orientale l’ Eufrate potrebbe significare un confine all’ Indo…..

L’identificazione del monte Mashu baleno’ improvvisamente alla mia mente nel maggio 1999, mentre leggevo Le astronavi del Sinai, di Sitchin,  Piemme, 1988. Nel punto dove Sitchin, la cui la fonte è il testo ittita nella traduzione di Friedrich, descrive come Gilgamesh, dall’ alto di un passo di montagna, vede una distesa d’acqua, sulle cui rive c’era un tempio dedicato a Sin, chiusi gli occhi e cercai di visualizzare la mappa dell’Asia Centrale (da bambino sono stato affascinato dalle mappe; posseggo una notevole collezione di carte geografiche e di atlanti, alcuni del 18esimo e 17esimo secolo). Mi sembrò che la distesa d’acqua, certamente non un mare ma un grande lago, potesse essere il lago Balkash, che verificheremo, soddisfa completamente le caratteristiche del testo. Allora pensai quale monte potesse essere il Mashu in questo contesto geografico, e immediatamente mi balenò la risposta,  prodotto di informazioni geografiche e antropologiche memorizzate un paio di anni prima da un libro di Leonard Clark, alla cui memoria è dedicato questo lavoro. Di Leonard Clark, forse con Heyerdahl e Harrer il più grande esploratore di questo secolo, ho letto e riletto nella mia adolescenza l’affascinante libro  I fiumi scendevano a oriente, che descrive la sua esplorazione dei fiumi Tambo, Perenè, Ucayali e Marañon. Se non avessi letto l’altro suo libro Alle porte della Mongolia, Garzanti, 1960, il monte Mashu non sarebbe ancora identificato. E’ sorprendente che la montagna sacra degli Ngolok sia virtualmente ignorata negli studi dei luoghi che hanno relazioni con le antiche religioni o significati esoterici. Non mi risulta sia citata nei lavori di Alexandra David Néel. Non è citata nella lunga lista delle montagne sacre di Roux (1999). È occasionalmente citata da Messner senza alcuna speciale osservazione. Walter Bonatti intendeva visitarla, ma gli fu negato il permesso. Esiste tuttavia a Dharamsala un Istituto ad essa dedicata.

 Ora parliamo della strada proposta per il monte Mashu. Naturalmente l’itinerario preciso è aldilà di ogni possibile identificazione, poiché il testo non fornisce elementi sufficienti. Forse se si trovassero tavolette mancanti la nostra proposta avrebbe più elementi per essere sostenuta o rifiutata. La nostra è quindi una educated guess, come nel caso dell’ itinerario per il fiume “Eufrate” ai piedi delle montagne della Foresta dei Cedri. La nostra ipotesi è tuttavia naturale una volta che siano identificati il “mare” con il tempio di Sin ed il monte Mashu.

Prima discutiamo il “mare” con il tempio di Sin. Il testo lo chiama un “mare”,  e di fatto ancora oggi i Kirghisi lo chiamano un “mare” (la loro parola per mare è proprio “Balkash”), ma noi lo identifichiamo con un grande lago. Notiamo che quello che noi chiamiamo “mare Caspio” è realmente un grande lago, il residuo di un precedente più grande lago, quindi in un certo senso un “mare”, che includeva anche il lago Aral, come appare nell’Atlante di Tolomeo, vedasi l’edizione di Pagani (1990). Notiamo ancora che il Caspio è chiamato dai Persiani “Darya-ye-Khazar”, cioè il “mare” o “acqua” dei Cazari (popolo il cui impero fiorì lungo le sue sponde per sette secoli prima dell’arrivo dei Mongoli nel 13esimo secolo). Ora “darya” è una parola turca che generalmente significa “distesa d’acqua” ed è usata nell’intera Asia Centrale per indicare fiumi, laghi e mari. Così affermiamo che Gilgamesh raggiunse questo “mare” dopo un percorso molto lungo, provenendo da sud-ovest, incontrando animali feroci e attraversando  fiumi ricchi d’acqua e non guadabili. Il “mare” appare dopo un passo di montagna. Sembra difficile attraversarlo ed anche le steppe intorno sembrano di difficile attraversata, rendendo Gilgamesh preoccupato. Vicino al “mare” c’è un insediamento con un tempio a Sin,  dio, tra l’altro, associato con la Luna.

Identifichiamo questo “mare” con il lago Balkash per i seguenti motivi:

·        È certamente lontano dalla Sumeria, circa 4000 km in linea d’aria, probabilmente oltre  6000 km lungo la strada presa effettivamente da Gilgamesh

·        È collocato in un bacino piuttosto piano, altezza circa 350-400 metri,  circondato a nord e ovest da una catena di colline (le colline Khaisaghin Daban nel nord raggiungono i 1559 metri, le Chu-Ili ad ovest raggiungono i 1053 metri). A sud-est, dietro il delta dell’Ili, ci sono montagne di notevole altezza, lo Zailiski Alatau e lo Zungarian Alatau, che raggiungono i 4951 e 4463 metri.

·        È alimentato da un fiume che viene da una valle tra le alte montagne, dove ora si trova la città di Alma-Ata. Il fiume ha l’interessante nome Ili, associabile al semitico el, uno dei più importanti dei.

·        Le acque sono salate, non potabili per l’uomo, solo una varietà di piccoli pesci vive nel lago.  Ci sono sorgenti di acqua dolce nel suo fondo, che forse hanno contribuito alla riduzione dalla più alta salinità notata nel 19esimo secolo a quella più moderata del 20esimo secolo, specialmente nella parte meridionale (l’inquinamento industriale lo sta ora avvelenando).

·        Ha una linea costiera tormentata, è circondato da paludi, da sabbia fine e depositi di sale, sui quali è estremamente difficile muoversi a piedi, sia per un uomo che per un cammello, vedasi Hedin (1943) per l’ affermazione che queste aree, chiamate scior nell’Asia centro-orientale, sono evitate da tutti. Le rive sono boscose. Da una descrizione del lago alla fine del 19esimo secolo di Grégoire (1876) abbiamo le seguenti informazioni, indicanti una dimensione decrescente del lago,  fenomeno di prosciugamento dei laghi interni comune nel mondo e probabilmente collegato al fatto che tali laghi furono riempiti oltre la loro normale capacità durante alcuni eventi catastrofici, fra cui il diluvio di Noah-Utanapishtim:

–          il lago è lungo 530 km, largo al massimo 85 km, ha un’area di 22.000 chilometri quadrati (nel 1950 aveva profondità massima di circa 11 metri)

–          l’attuale altitudine (Times Atlas, 1974) è di 339 metri sopra il livello del mare. Ad est si trovano due laghi più piccoli allineati in una direzione orientale: il lago Sasykul, altitudine 334 m, e Alakul, 340 m. Qualora il livello del Balkash dovesse crescere di circa 10 metri, questi due laghi si unirebbero ad esso, come sembra sia successo in passato, stando ad una ispezione di mappe  del 18esimo secolo, formando un singolo lago lungo oltre 800 km, ma largo non più di 100 km.

–          la forma del lago è arcuata, come una mezza luna

–          se il livello del lago dovesse crescere sino alla isoipsa di 500 metri, come potrebbe avvenire dopo un grande diluvio, genererebbe una estensione d’acqua sempre senza sbocco nell’oceano, con una dimensione di circa 150.000 chilometri quadrati, quanto il Mare Caspio. Non sappiamo quale fosse l’altezza del Balkash al tempo di Gilgamesh. Data la generale tendenza al prosciugamento, il livello era probabilmente più alto di adesso

–          il nome del lago è indicativo, nell’analisi linguistica che proporremo, di una relazione con il dio Sin, al quale forse il lago era consacrato per la sua particolare forma a mezza luna

Discutiamo ora la nostra interpretazione del nome BALKASH. Non siamo stati in grado di accertarne l’etimologia ufficiale, pur contattando un colto Kazako incontrato su un volo per l’ Oman ed il  maggiore esperto italiano delle civiltà turche  ed islamiche, il professore Gabriele Mandel. La nostra proposta è che BALKASH sia la forma contratta di un più antico BALKASHIN. Con mia soddisfazione constatai, dopo avere avuto questa idea, che atlanti e dizionari geografici della metà del 19esimo secolo chiamano il lago come BALKASHI, nome assai vicino al proposto BALKASHIN. Ora non ci sono problemi nell’equivalenza fra BALKASHIN=BALKASIN. Vediamo quindi tale parola composta da tre sillabe con un preciso significato ciascuna, cioè BAL – KA – SIN, che portano alla seguente traduzione: Sin, signore delle genti. La traduzione di Sin e  Bal è ovvia. Il punto importante è la validità dell’identificazione KA = GENTI, che è rimandata all’ Appendice 1.

Avendo identificato il “mare con il tempio di Sin” con il lago Balkash, ora possiamo fare ipotesi sulla prima tappa del viaggio di Gilgamesh, da Uruk al Balkash.

Dal testo ittita nella traduzione di Friedrich, ma non dalla raccolta di scritti di Pettinato, sembra che il viaggio sia iniziato quando Enkidu era ancora in vita, e per mare, a bordo di una barca chiamata MA-GAN. La barca affondò vicino la costa di MA-GAN, e Enkidu morì nell’incidente. Allora Gilgamesh continuò il viaggio da solo via terra. Sitchin identifica Magan con l’Egitto, mentre molti studiosi identificano Magan con la costa sud-orientale della penisola arabica, cioè l’Oman e parte degli Emirati, per il fatto che il rame era tra le esportazioni di Magan e che miniere di rame dell’età del bronzo sono state trovate nelle montagne dell’ Oman. Se la versione ittita usata da Sitchin è corretta, allora sembra che Gilgamesh intendesse di nuovo raggiungere il cuore dell’Asia per i passi del Karakorum già tentati, raggiungendo tuttavia le montagne del Kashmir non per via terra come nel primo viaggio ma per il più usuale percorso via l’Oceano Indiano e il fiume Indo. Inoltre affermiamo che MAGAN, anche letta come MAKAN, non è né l’Egitto né l’Oman, ma la costa meridionale dell’altipiano dell’Iran, l’antica Gedrosia, una vasta distesa di basse montagne estremamente povere di acqua, che Alessandro attraversò al suo ritorno dall’India, rischiando di morire di sete con il suo esercito. Questa regione, sebbene difficile ed anche ora poco popolata, non è un completo deserto. Ora vi abitano soprattutto Baluchi, divisi tra l’Iran e il Pakistan. In tempi classici, come riportato nel Periplo del mare eritreo, aveva numerosi porti ed una popolazione costiera, gli Ittiofagi, che viveva di prodotti marini. L’attuale nome di questa regione, come leggesi negli atlanti almeno dal 18esimo secolo, è MAKRAN (qualche volta anche scritto come MAKRAN, MUKRAN). Il nome MAKRAN è ovviamente simile a MAGAN/MACAN, un fatto avvalorato dall’osservazione che il suono KR non appartiene alla lingua sumera.  MAKAN appare anche negli antichi atlanti come il nome di una parte dell’ attuale Turkestan, non lungi dal Mar Caspio e presso il confine iranico. Possiamo ipotizzare che MAGAN fosse il nome sumero del territorio esteso prevalentemente nell’ attuale Iran orientale, il cui centro era il Sistan, terra allora ricca di acqua e pascoli, centro di città e di lavorazione di rame (esistono ora miniere non lontano, presso Birjand; camminando sulle rovine  di Shar-i-Sokhta si trovano facilmente pezzi di rame di fusione) e pietre preziose.

Sia che  il secondo viaggio di Gilgamesh iniziasse per barca oppure no, il “mare” con il tempio di Sin fu raggiunto via terra. La probabile strada è la seguente.

·        Dapprima da Uruk al Sistan. Questo percorso poteva essere compiuto via mare e poi attraverso il Makran, lungo una delle vallate (per esempio quella di Dasht o di Rakshan) usate per il commercio dei prodotti del Sistan. Notiamo sulla costa del Makran una baia ben protetta, quella di Gwatar, presso la quale e vicino a un fiume era situata la città di Kalataki, antico porto, ora in rovina, forse quello dove sbarcò Gilgamesh. Oppure il percorso poteva essere stato fatto via terra, forse per la stessa strada presa nel primo viaggio. Dal Sistan il naturale percorso per il Balkash, non meno di 3000 km, costeggia ad ovest le montagne dell’Afghanistan, del Pamir e del Tien Shan, muovendo in una generale direzione nord-est. Lungo questo percorso dovevano essere attraversati alcuni fiumi dal letto assai ampio, e sempre pieni di acqua, incluso l’Amu Darya (il classico Oxus, vedasi Spedicato (2001) per altre informazioni), il Syr Darya (il classico Jaxartes/Araxeses, il fiume più settentrionale raggiunto da Alessandro, che costruì sulle sue sponde Alexandria Ultima; in precedenza, raggiunto anche da Ciro,  da Semiramide,  e forse da Sesostri I il Grande), e, infine, il Chu. L’epopea afferma che Gilgamesh fu attaccato da animali feroci lungo il percorso. Leopardi e iene si trovano ancora in quell’area; la famosa tigre dell’ Aral, una varietà di tigre reale adattata a nuotare e vivere tra le canne, si estinse intorno al 1950 (una varietà simile sparì intorno al 1900 lungo il fiume Tarim); il leone, che ha dato il nome al fiume Syr Darya, Fiume del Leone,  si estinse molti secoli fa, sebbene esistano rapporti non confermati, vedasi la  Lonely Planet Guide per l’Iran, di avvistamenti da parte di contadini del Mazandaran, lungo la costa meridionale del Mare Caspio.

·        Discutiamo ora la seconda tappa del viaggio, dal lago Balkash al Monte Mashu. Come osservato prima, al tempo di Gilgamesh il lago Balkash era certamente più ampio, con una lunghezza vicino agli  800 km e una larghezza media di oltre 100 km. Non sappiamo dov’era il tempio di Sin, probabilmente vicino alla riva antica, più alta ed a una certa distanza da quella attuale. Uno sguardo alla carta geografica, per esempio quella nel Times Atlas of the World, 1974, suggerisce che Gilgamesh, che presumibilmente aveva costeggiato il lato occidentale del Tien Shan, attraversò le colline Chu-Ili nel passo dove ora si incrociano una strada e una ferrovia, vicino alle cittadine di Khantau e Burubaytal, quindi si avvicinò al lago dalla sua riva meridionale. Al suo tempo il lago probabilmente ricopriva gran parte della steppa Zhusandala, che si estende ad est dell’attuale lato meridionale del lago. Come nel caso di molti laghi con fondali bassi dell’Asia centrale, la navigazione è estremamente pericolosa. Una volta che una barca si areni nel fondo fangoso, riprendere la navigazione può essere un lavoro impossibile, perché il fondo molle è estremamente pericoloso per chiunque debba scendere nell’acqua per spingere la barca. Per una descrizione di quello che può accadere nelle così dette sabbie mobili o fanghi mobili, si ricordi la morte dell’amico di Carrière, l’autore di Papillon, scomparso nei fanghi di una costa di mangrovie. Questo problema fu anche notato da Sven Hedin, vedasi Hedin (1943). Costituì il suo problema principale durante l’esplorazione del nuovo Lop Nor, il lago con fondali bassi dove si perde il Tarim, che all’inizio del 20esimo secolo dopo una inconsueta stagione di pioggia, si spostò a nord di circa 200 km, rioccupando una antica localizzazione di circa 2000 anni prima (a quel tempo lo spostamento del lago fece abbandonare la città di Lou-Lan, dove sono state ora trovate mummie perfettamente conservate di una popolazione dalle caratteristiche occidentali, probabilmente gli antichi Tocari citati in Pomponio Mela).  La navigazione per il lago costituiva quindi un’impresa che richiedeva un pilota esperto. C’è tuttavia una possibilità ancora più interessante. Se il livello dell’acqua del Balkash al tempo di Gilgamesh fosse stato circa 150 metri più alto di adesso, il lago si sarebbe esteso nella Zungaria inondando le Porte di Zungaria e arrivando a non molta distanza dall’ attuale città di Urumchi. Ora qui avremmo due ulteriori problemi. Il primo è che le porte di Zungaria, lunghe una ottantina di km, larghe una decina, con pareti quasi verticali, sono ventosissime. Quindi  sono state fino a tempi recenti per questo motivo evitate quanto possibile dalle popolazioni che dovevano uscire dalla Zungaria, che vi preferivano un passaggio più a nord attraverso le colline Tarbagatai, sebbene il percorso venisse allungato di centinaia di km, vedasi Lattimore (1929, 1995).  La navigazione in presenza di forti venti può essere effettuata, come avveniva sul Nilo in tempi antichi, stando ad Erodoto, e come tuttora avviene nel Bosforo in cui ci sono due correnti opposte, una superficiale ed una in profondità, immergendo nell’ acqua una pietra piatta che stabilizzi la barca contro i venti o che permetta di sfruttare la corrente in profondità. Questo potrebbe essere stato l’ uso della misteriosa importante “stele” di Urshanabi, che Gilgamesh rompe in un momento d’ira. Il secondo problema è che vicino a Urumchi, nel lato settentrionale dei monti Bokhda-Ula, c’è un’enorme solfatara, con un perimetro di 25 km all’inizio del 19esimo secolo, vedasi Marmocchi (1856), da cui escono gas velenosi, letali per ogni essere, uccelli inclusi, che tenti di attraversare l’area. In caso di allagamento della zona i gas sarebbero stati pericolosissimi per chiunque si trovasse su una barca.  Non conosciamo la linea costiera del Balkash al tempo di Gilgamesh, ma i fenomeni qui descritti spiegherebbero perfettamente la qualifica di “acque della morte” data nell’epopea.

Se la nostra interpretazione delle “stele” è corretta, è probabile che Urshanabi abbia accompagnato Gilgamesh nella terra chiamata Tilmun, sulla direzione del monte Mashu, navigando le acque di un più esteso Balkash, attraverso le porte di Zungaria. Sarebbe quindi penetrato nella depressione semidesertica chiamata ora Zungaria, per secoli sede di popolazioni mongole  di pastori guerrieri, fra cui gli Unni ed i Calmucchi.

7. Il Monte Mashu e il ritorno a Uruk

Secondo una recente proposta di Temple (Hera Magazine, n. 1, 2000), Mashu significa “il luogo dove sorge il sole in oriente”. Questa interpretazione si adatta perfettamente con la nostra identificazione. Ora, per giungere alla nostra identificazione del Monte Mashu, ricordiamo alcuni eventi bellici del 20esimo secolo.

All’inizio del 1949 gli eserciti di Mao Tsedong avevano già il controllo della parte orientale della Cina continentale. Nella parte occidentale, il Tibet a sud aspirava a riprendere la sua precedente autonomia, mentre nel nord, lungo il corridoio Xining-Lanzhou, un esercito musulmano guidato dal generale Ma Pufang sperava di arrestare l’avanzata delle armate di Lin Biao, il generale che, con He Long, Peng Dehuai e Chu Teh, guidò le truppe comuniste alla vittoria. L’esercito musulmano fu sconfitto e Ma Pufang fuggì con due aerei dal suo amico  re Faruk d’Egitto, portando 600.000 once d’oro e numerose belle donne. Lo Xinjang, che nell’ ultimo secolo avevo spesso cercato l’indipendenza, ritornò sotto il controllo di Pechino e fu più tardi soggetto ad una politica di immigrazione Han, che potrà ridurre in futuro la popolazione turca ad una minoranza, come sta accadendo in Tibet. La sconfitta di Ma Pufang aprì ai cinesi la via del Tibet.

Quando l’esercito di Ma Pufang ancora sperava di fermare Lin Biao, un ufficiale segreto dell’esercito USA,  Leonard Clark, operò dietro le linee dell’esercito musulmano con lo scopo di accertare se era possibile continuare la resistenza contro i comunisti dal Tibet settentrionale. Questo significava valutare le riserve di cibo disponibili localmente, molto povere, quindi in pratica significava sottrarre gli animali (cavalli, pecore, yak) allevati dalle tribù locali. Clark fece un’estesa ricognizione del Quinghai settentrionale, in particolare del bacino dello Tsaidam, ricco di fiumi e di laghi, tra i quali i laghi Gyaring Hu e Ngorin Hu, formati dal Fiume Giallo a circa 100 km dalle sue sorgenti. Questa regione era abitata da una tribù locale chiamata Ngolok (anche denominata Go-lok, Go-Log, Mgo-Log). Nome che stando a Roerich (1996), significherebbe cani selvaggi.  Tra le caratteristiche interessanti di questo popolo:

·        ancora praticavano l’antica religione tibetana prebuddista, chiamata Bon-Po. Clark una volta visitò la tenda di un capo tribù e notò che 108 lampade bruciavano di fronte ad una statua di una divinità; vedasi Patten e Spedicato (2000) per una spiegazione possibile della “sacralità” del numero 108, e dei numeri 54, 27, 216 …, nelle antiche religioni del mondo

·        erano eccellenti cavalieri esperti di cavalli e superbi combattenti; i vicini li consideravano banditi

·        erano molto diffidenti, per le continue incursioni nel loro territorio delle tribù mongole e turche; reagirono coraggiosamente all’ invasione cinese che quasi li sterminò. Erano forse 120.000 all’ arrivo dei Cinesi, ne sopravvivono circa 3000….

Il territorio degli Ngolok comprendeva una grande catena montuosa che non era mai stata esplorata dagli occidentali e che alcuni geografi avevano affermato potesse includere le montagne più alte del mondo. L’ altezza di questa catena montuosa non appare nel citato Times Atlas del 1974, ma è data di 6282 metri nel National Geographic Atlas sesta edizione rivista del 1992, cifra probabilmente presa dall’atlante della Repubblica Popolare Cinese (APRC), Foreign Languages Press, Beijing, 1989. L’intera catena montuosa era sacra agli Ngolok e l’ingresso era proibito agli stranieri. La catena è lunga oltre 300 km e, tranne la parte settentrionale, è circondata dal Fiume Giallo per circa 800 km. Come notato prima, questa enorme montagna sacra è sfuggita all’attenzione degli studiosi di montagne  sacre.

Il nome della montagna è così dato in alcune atlanti:

·        ANYEMAQUEN SHAN, nel citato Atlante APRC e nel citato National Geographic Atlas del 1992

·        Catena AMNE MACHIN e ANI MACHING Shan, nel citato Atlante Times del 1974

·        AMNIE MACHIN, nel Grande Atlante Geografico, M. Beretta e L. Visintin editori, Istituto geografico De Agostini, 1927

·        AMNIA MACHER, nel libro Dach der Erde, Berlino, 1938, citato da Messner (1999)

·        in Richardson (1998) la montagna è denominata come A-MYES RMA-CHEN e il nome locale del Fiume Giallo è dato come RMACHU

A Dharamsala esiste un Institute of Anye Machen ed assumeremo quindi questa denominazione. Il Fiume Giallo, che abbraccia la maggior parte della catena, ha anche un nome locale speciale, scritto come segue:

·        MACHU, nel The Times Atlas, 1985 (notare che nessun nome locale è dato nell’edizione del 1974 per il resto ricca di informazioni)

·        MAQU (si legge come sopra), nell’ atlante APRC.

Dall’ atlante APRC notiamo anche un piccolo fiume chiamato MEQU che entra come MAQU in un’area paludosa, e che la città capitale amministrativa è chiamata MAQUEN (precedentemente DAWU).

Ora si può accettare l’equivalenza linguistica tra MAQU=MACHU con la parola dell’epopea di Gilgamesh MASHU, poiché queste espressioni non caratterizzano completamente l’esatta pronuncia, che ha certamente variazioni locali e cambia nel tempo. Il termine ANI, ANYE suggerisce il nome del dio ANU, il capo del panteon sumero. I cambiamenti da I ad U sono linguisticamente bene documentati, per esempio nella iotizzazione subita dal greco moderno rispetto al classico e in alcuni passaggi dall’arabo al persiano nei nomi personali (per esempio ADHUB diventa ADHIB, HAMUD diventa HAMID…  Adhib e Hamid sono due miei collaboratori iraniani, Adhud e Hamud erano amici di Laurence d’Arabia…). Quindi sul piano linguistico la montagna sacra degli Ngolok può essere identificata con il sacro monte Mashu dei Sumeri, e questa relazione è rafforzata dal supplementare riferimento a ANI=ANU. Così concludiamo che tale montagna è identificabile con il monte  Mashu (un luogo sacro; un luogo ad est; un luogo chiamato Mashu) e proponiamo, usando un’affermazione di Temple, la traduzione seguente del nome/nomi della montagna sacra

ANYE MACHEN = ANU MASHU

=  il luogo del dio Anu, dove il Sole sorge

Avendo così identificato la meta del secondo viaggio di Gilgamesh, formuliamo un’ipotesi sull’itinerario dalla Zungaria.

(a) Verso sud-est-est, per circa 3000 km, puntando al “grande mare” della traduzione di Friedrich del testo ittito, che ora possiamo identificare con un vero grande mare, cioè l’Oceano Pacifico.

(b) Costeggiando il lato settentrionale del Tien Shan per circa 500 km. Questa parte della Zungaria ha parecchie oasi e fiumi e al tempo di Gilgamesh era probabilmente ancora più ricca di acqua. Notiamo che il nome Zungaria viene dal mongolo JA’UN-GHAR e corrisponde al cinese PE-LU, ovvero Strada Settentrionale. La Zungaria produce riso e molta frutta.

(c) Attraversando la depressione del Turfan per mezzo del facile passo dove ora si trova la città di Urumchi. Il nome cinese di Urumchi è TIWA o TI-HOUAS (vedere Atlas Classique de Géographie, Monin, Parigi, 1839-1840). Effettuando per metatesi il cambio di TI in IT e notando che W = HOUA è una vocale liquida, essenzialmente una consonante, possiamo affermare l’identificazione virtuale di TIWA con ITLA, nome della città nel ricordato testo ittita. Notiamo inoltre che il nome Urumchi può essere considerato equivalente, con la transizione da R a L, a ULUMCHI.  ULUM è simile al nome del dio ULLU al quale era consacrato il luogo, secondo il testo ittita.

(d) Raggiungendo Dun Huang, circa 1000 km a sud-est, per la grande oasi di Hami (anche chiamata Kumul o Khamil), che produce i migliori meloni del mondo, e per Anxi (An Hsi). Notiamo che Dun Huang  è una città storicamente molto importante, famosa per i Cento Budda, ma soprattutto per l’inestimabile tesoro di migliaia di  rotoli ritrovati dietro un muro di  un monastero verso il 1920. Alcuni rotoli risalgono al sesto secolo ed alcuni sono scritti in tocarico. E’ stata una fortuna che molti di questi rotoli furono portati fuori dalla Cina per le collezioni occidentali. Probabilmente così evitarono il destino di finire in fiamme come accadde alle grandi biblioteche dei monasteri tibetani, distrutti al 99% durante la Grande Rivoluzione Culturale.

(e) Ci sono varie strade da Dun Huang  attraverso il bacino dello Tsaidam fino all’ Anye Machen, una distanza di circa 1000 km. E’ una regione di altitudine tra 2000 e 3000 metri, ricca di paludi, laghi, fiumi, selvaggina e minerali. I laghi devono essere segnalati (o così erano quando Clark li vide) per l’incredibile trasparenza delle loro acque,  che permette di vedere a grande profondità, e per la bellezza dei pesci molto colorati, lasciati in pace dalle popolazioni locali. Questa regione è ricca di piante aromatiche medicinali, la così detta medicina delle erbe cinese avendo avuto origine nell’altopiano del Tibet. L’area è anche ricca di minerali rari, incluso l’uranio. Forse queste caratteristiche possono spiegare certi particolari “esoterici” che caratterizzano la regione dove Gilgamesh incontrò Utanapishtim.

Dall’ Anye Machen il ritorno a Uruk può essere compiuto via acqua. Prima seguendo il Fiume Giallo, che è un fiume abbastanza tranquillo, senza i gorghi pericolosi e le correnti  dello Yang Tze-Kiang. Poi, costeggiando Cina, Asia Sudorientale, India e Makran, infine a Uruk risalendo per un corto tratto l’ Eufrate. Certamente un viaggio lungo, circa 15.000 km, ma senza grandi difficoltà, il principale pericolo di questo viaggio in tempi più recenti essendo stato la pirateria, una professione forse non ancora sviluppata ai tempi di Gilgamesh.

Terminiamo questo paragrafo con una osservazione sulla traduzione di Pettinato nel libro XI, 195, dove si legge “alla foce dei fiumi”. In Sitchin e altri autori questo brano si legge come “la bocca dei fiumi”, lasciando non tradotta la parola originale “bocca”. Dalla nostra identificazione l’incontro con Utanapishtim avvenne in una montagna molto lontano da qualsiasi mare o oceano, quindi da qualsiasi foce di fiume. Discuteremo in un futuro lavoro come la storia di Utanapishtim non sia identificabile con quella di Noè, cui è collegata solo per il fatto che entrambi gli uomini sopravvissero allo stesso Diluvio. In accordo con altri autori, e con il fatto che in tibetano la sorgente di un fiume è chiamata bocca mentre la foce è chiamata coda,  suggeriamo che nel testo di Gilgamesh il termine “bocca” debba essere letto come “sorgente”. Inoltre un controllo della mappa del Qinghai  in APRC mostra che il Fiume Giallo, forse già ai tempi di Gilgamesh chiamato MAQU/MASHU, nome che localmente conserva ancora oggi, ha molte sorgenti. Nessuna di queste può essere veramente localizzata con esattezza come la più lunga, non meno di 9 sorgenti trovandosi ad ovest del villaggio di Horgorgoinba. Questa interessante caratteristica geografica può spiegare il plurale “fiumi”. Inoltre possiamo notare che, in un tratto di Tibet lungo non più di 500 km a sud dell’ Anye Machen, nascono tre grandi fiumi, che bagnano buona parte dell’Asia, cioè lo Yang Tze Kiang, il Mekong e il Salween. Quindi, in alternativa, sorgenti dei fiumi potrebbe riferirsi  alla parte del Tibet dove nascono quattro grandi fiumi.

Ringraziamenti

Questo lavoro non sarebbe mai stato scritto senza i seguenti contributi:

·        la raccolta dei testi di Gilgamesh dovuta a Pettinato

·        la versione del testo ittita di Friedrich usata da Sitchin (ma i nostri itinerari sono completamente diversi da quelli proposti da Sitchin)

·        le traduzioni di LBN con “latte, prodotti di latteria” e di PRT come PAROT  dovuta alla dott. Lia Mangolini

·        le informazioni sulla valle Hunza provengono da Antonio Agriesti, che, essendo conoscitore di molte lingue, ha anche aiutato nello studio della etimologia di alcune parole

·        le informazioni sulla solfatara vicino a Urumchi provengono da una verifica di Mariuccia Risso nei quattro volumi del Marmocchi, acquistati da mio zio Umberto Risso, grande bibliofilo.

Appendice 1: il significato di KA

Molti linguisti credono, sulla base delle ricerche del professore Joseph Greenberg dell’Università di Stanford, che le lingue umane discendano da un’unica lingua originale, affermazione confortata anche dalla recente scoperta, dovuta a una sofisticata analisi genetica (DNA mitocondrico e cromosoma Y), che tutti gli esseri umani discendono da una sola madre e da un solo padre, vissuti circa 140.000 anni fa. Il lavoro di Greenberg ha portato a classificare le lingue esistenti e quelle estinte in differenti famiglie e superfamiglie, una delle quali, detta la famiglia afroasiatica, include il camitico, il semitico, l’indoeuropeo, il turco. Qui affermiamo che la sillaba KA dovrebbe essere collegata alla parola afroasiatica (vocale) – k –(vocale) con il generico significato di anima, persona, popolo sulla base dei seguenti esempi:

–       il grande antropologo Luca Cavalli Sforza, dell’Università di Pavia e di Stanford, fece ricerche per molti anni presso una tribù di Pigmei del Camerun; come molti altri popoli “primitivi”, questi pigmei  chiamavano sè stessi AKA, una parola che significa semplicemente “popolo”

–       ci sono quattro tribù principali in Ghana che parlano una lingua comune, il cui nome, AKAN, significa “del popolo”

–       una tribù “primitiva” di cacciatori, che viveva in una montagna sacra dove Uganda, Sudan e Kenya confluiscono,  fu portata all’estinzione quando gli Inglesi vietarono la caccia, loro modo tradizionale di vita. Gli appartenenti alla tribù si chiamavano IK, variazione di AK; la parola IK significa “clan” in molti dialetti berberi e in guanche

–       i Cazari avevano due capi, uno, il Bek, incaricato delle faccende amministrative, l’altro, il Kagan, incaricato delle materie religiose. Ora l’equivalenza accettabile KA-GAN = KA-HAN (un cognome ebreo) = CO-HEN (un  sacerdote della tribù di Levi) = KA-HN (il re dei Mongoli) = CA-CANUS (il nome latino usato da Paolo Diacono per i capi degli Avari) implica che tali parole abbiano tutte lo stesso significato originale, che interpretiamo come AN = luce divina, KA = del popolo, in perfetta corrispondenza con il ruolo associato a questi nomi

–       come sopra, forse il significato originale del termine Inca è IN-CA = AN-CA, = “luce divina del popolo”

–       gli afgani sono divisi in numerose tribù con nomi diversi, ma condividenti, almeno fino alla metà del secolo scorso, il comune nome Aklai = AK-LAI, dove l’esatto significato di LAI non è chiaro (forse per metatesi è in relazione con EL, dando quindi “popolo divino”, “popolo degli dei”)

–       una tribù che vive nello Swat (provincia del Pakistan, il cui nome deriva dal sanscrito su vasto = ciò è buono = svastica….) è chiamata localmente Assaka, tali abitanti essendo chiamati Assakenoi dei Greci, vedasi Tucci (1978). Ora ASSA (pracrito) = ASVA (sanscrito) = ASPA (antico persiano) = ASBE (persiano) significa “cavallo”, implicando, con la nostra interpretazione di KA, il significato di popolo dei cavalli. E’ noto che i Cinesi chiamavano gli invasori mongoli di Gengis Khan il popolo dei cavalli. In Spedicato (1997) è stato suggerito che il vero significato della parola Hyksos, il popolo che invase l’ Egitto alla fine della 13esima dinastia, sia popolo dei cavalli, da HYK = AK e SOS = SUS (ebraico) = CAVALLO.

–       Infine, KA significa, nella lingua egiziana antica ed in nahuatl, anima.

Appendice 2: i cedri nel mondo

I cedri crescono allo stato naturale dalle montagne del Marocco fino all’Himalaia, lungo  un arco di circa 10.000 km. I cedri sono denominati come se appartenessero a diverse specie, ma ora sono considerati della stessa specie, con diverse varietà. Citiamo la seguente affermazione della Enciclopedia Britannica (1992): le differenze tra le quattro specie di veri cedri sono spesso difficili da definire. Possono avvenire degli incroci e alcuni specialisti considerano i quattro tipi delle varianti geografiche di una stessa specie, cioè il cedro del Libano. O, forse, la specie originale era il Cedrus Deodara, che potrebbe essere stato portato dai Fenici o dai Sumeri nel Libano.

Le seguenti informazioni sui cedri sono prese dalla Enciclopedia Treccani, edizione del 1953.

–       Cedrus Atlantica (Manetti, 1842): cresce in Marocco e in Algeria, tra i 1000 e i 2000 metri

–       Cedrus Brevifoglia (Hook, 1880): si trova a Cipro tra i villaggi di Kykko e Irka, a circa 1300 metri di altitudine

–       Cedrus Libanotica (Linneus, 1831): cresce in Anatolia meridionale e in Siria, incluso il Libano. Massima altezza circa 40 metri, ma i rami possono estendersi sino a 100 metri, rendendolo ingombrante per la produzione di legname. Il primo Libanotica fu portato in Inghilterra e piantato a Chelsea nel 1683, il primo in Italia fu piantato nel Giardino Botanico di Pisa nel 1787

–       Cedrus Deodara (Roxb, 1832; Laws, 1838, che lo chiamò Pinus Deodara): cresce nell’ Hindukush, in Afghanistan e in Beluchistan, anche nel Tibet meridionale, tra i 1100 e i 4000 metri, con crescita ottimale tra i 2000 e i 3000 metri. Ha foglie più lunghe di quelle del Libanotica, un tronco più diritto e rami meno massicci (avevo un Deodara nel mio giardino: ha sofferto per il clima a nord di Milano ed è morto dopo circa 20 anni di vita stentata). Il legno del Deodara è localmente chiamato  legno degli dei. E’ usato in Asia per costruire templi e statue religiose. Le ragioni per questo uso possono essere il suo colore rossastro e il fatto che è repellente agli insetti e estremamente resistente al deterioramento. Si noti che Tucci (1978) cita l’esistenza di travi portanti di legno (senza specificare quale,  ma dovrebbe essere il cedro) lunghe 30 metri nella Moschea di Calam nello Swat, una regione del Kashmir. Non sono informato quale sia la massima lunghezza delle travi nei templi dell’Asia, in particolare se ci siano travi della lunghezza corrispondente a quelle ottenibili dal cedro tagliato da Gilgamesh.

Appendice 3:  Yeti in Africa?

In Chioffi (2000) c’è la traduzione del testo integrale di un viaggio di Annone, un generale cartaginese, che seguì le coste dell’Africa almeno fino alla regione del grande vulcano Cameroon, che trovò in piena eruzione. La descrizione del viaggio è conservata in un manoscritto del decimo secolo e contiene una interessante descrizione di alcune creature il cui comportamento rammenta fortemente quello degli yeti. Qui diamo i passaggi relativi:

–       VII:… Lontano dalla spiaggia ci sono inospitali Etiopi che vivono in una regione piena di animali selvaggi e vicino a grandi montagne. Essi dicono che il fiume Lixos nasce lì e che nelle montagne vivono dei trogloditi con uno strano aspetto e che, secondo i Lixiti, possono correre più veloci dei cavalli

–       IX:… le montagne sono piene di creature selvagge coperte con pelli di animali selvaggi, che ci scagliarono pietre, rendendo l’ approdo impossibile

–       XVIII:… c’era un’isola piena di creature selvagge. Molte erano femmine con il corpo peloso; i nostri interpreti le chiamarono “gorilla” (?). Noi le cacciammo, ma non riuscimmo a prendere un maschio, poiché erano abili nell’arrampicarsi e si lanciavano pietre. Catturammo tre femmine, che morsero e colpirono quelli che le stavano trasportando. Così le uccidemmo e portammo le loro pelli a Cartagine.

I gorilla lanciano pietre?

Almeno Gilgamesh non scuoiò Khubaba. Uccidere gli yeti con i fucili e spellarli sembra che sia, al giorno d’oggi, un passatempo dei soldati cinesi in Tibet, vedesi Messner (1999). Homo homini lupus.

Appendice 4:  breve riassunto dell’ epopea di Gilgamesh

Gilgamesh è re della città  sumera di Uruk; ama sfidare i giovani della città alla lotta, sconfiggendoli regolarmente, e pratica lo ius primae noctis.

Arriva ad Uruk un cacciatore che era stato assente per lungo tempo. Informa Gilgamesh della presenza non lontano di un uomo selvaggio, fortissimo.

L’ uomo selvaggio, abituato a frequentare gli animali selvatici, viene umanizzato dall’ incontro con una prostituta.  Sconfigge poi Gilgamesh nella lotta e ne diventa amico.

I due amici partono per il primo viaggio descritto in questo saggio. Al ritorno Enkidu muore, come atto di vendetta della dea Inanna, le cui avances erano state rifiutate da Gilgamesh.

Disperato per la morte dell’ amico e consapevole di essere anch’egli mortale, Gilgamesh parte per il secondo viaggio, descritto in questo saggio,  per incontrare Utanapishtim, l’ uomo sopravvissuto al diluvio in un’arca ed al quale gli dei  hanno concesso l’immortalita’. Lo incontra sul monte Mashu, da noi identificato con il massiccio Anye Machen, presso le sorgenti del Fiume Giallo.

Utanapishtim comunica a Gilgamesh che il dono dell’ immortalità non è riservato per lui. Gli da tuttavia una pianta che può conservare la giovinezza, ma che Gilgamesh perde, sottrattagli da un serpente d’ acqua.

Gilgamesh rientra ad Uruk con una nuova saggezza.

Nota finale

Sarebbe interessante analizzare il significato dell’ immortalità di Utanapishtim alla luce delle tradizioni taoiste e tibetane sull’ immortalità, in particolare con riferimento alla tecnica di trasferimento della propria coscienza in altri corpi la cui conoscenza sarebbe terminata con Marpa, il maestro di Milarepa.

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